La scimitarra spuntata del saladino: perché Kadyrov minaccia (a vuoto) la Polonia

Il presidente ceceno e criminale internazionale Ramzan Akhmatovič Kadyrov (figlio dell’ex presidente ceceno e criminale internazionale Achmat Abdulchamidovič Kadyrov) minaccia di nuovo la NATO e la Polonia, dichiarando che dopo Kiev toccherà a Varsavia.

Come già detto, simili uscite sono solo una forma di propaganda, “interna” (diretta alla platea russa, per galvanizzarla), ed “esterna” (diretta ai cittadini dei paesi occidentali e avversari, per spaventarli*), tuttavia la loro reiterazione rischia, alla lunga, di far perdere ogni credibilità alla retorica muscolare russa, togliendo così a Mosca uno dei suoi strumenti più efficaci, e di ridicolizzarne i mittenti.

Già adesso le minacce nucleari e militari russe sembrano infatti avere molta meno presa, nei loro bersagli.

*in questo caso si può parlare di vere e proprie PsyOps (Psychological Operations), mentre in entrambi i casi si può parlare di propaganda “grassroots” (diretta al “prato”, il “grass”, la base, i cittadini comuni)

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L’URSS e il nodo-NATO dopo la fine della Guerra Fredda

Quella telefonata di 32 anni fa

“Secondo punto: l’adesione alla NATO della Germania. Il minimo su cui occorre insistere è la non partecipazione della Germania a un’organizzazione militare, come per esempio non vi prende parte la Francia. Il minimo del minimo è almeno il non stanziamento di armi nucleari su tutto il territorio tedesco. Secondo i sondaggi, l’84 percento dei tedeschi è per la denuclearizzazione del Paese”

Così Valentin Mikhailovich Falin, consulente del Kremlino per la questione tedesca, nel luglio 1990 durante una telefonata con Michail Gorbačëv (gli altri due punti riguardavano questioni di natura legale, burocratica ed economica). Il segretario del PCUS concluse tuttavia la conversazione dicendo: “Farò tutto il possibile, ma temo che ormai abbiamo perso il treno.”

Le parole di Falin dimostrano come l’URSS avesse effettivamente pensato ad una serie di richieste per contenere l’ampliamento della NATO e l’influenza atlantica oltre i perimetri tracciati nel 1943/1945, mentre l’atteggiamento di Gorbačëv sembrerebbe confermare la tesi secondo cui tra l’Occidente e l’Unione Sovietica non vi sia mai stato alcun accordo in merito (sebbene lo stesso padre della perestrojka e diversi ex leader d’oltrecortina ne abbiano parlato in diverse occasioni).

E’ da notare come nel febbraio dello stesso anno anche Walter Momper, allora sindaco di Berlino Ovest, avesse elaborato una proposta in nove punti sulla riunificazione tedesca che prevedeva la smilitarizzazione completa della vecchia DDR.

Quell’ultima volta (mancata) a Mosca

Il 14 e il 15 novembre 1990, Michail Gorbačëv, il vice-segretario del PCUS Vladimir Ivaško e i segretari del Comitato centrale Janaev, Kupco e Falin, si incontrarono a Mosca con i rappresentanti degli ex partiti comunisti dell’Est Europa: per la vecchia SED (ora PDS) tedesco-orientale c’erano Gysi, Willering, Mahlow, Eettinger e Modrow, per la Bulgaria Kjučukov e Marinov, per l’Ungheria Thürmer, Koyi, Namikai e Segy, per la Polonia Kwaśniewski, Milller, Iwiński e Olesky (oltre ai dirigenti di altre tre organizzazioni), per la Cecoslovacchia Kanis, Waiss e Ledl e per la Romania un semplice osservatore. Mancavano i rappresentanti dell’unico partito marxista-leninista ancora al potere in Europa a parte il PCUS, ossia il PKSH albanese, e quelli della ex Lega dei Comunisti jugoslava.

Nonostante un ottimistico comunicato della TASS e l’indubbia importanza dell’evento, Gorbačëv sembrò tuttavia dare scarso peso al meeting con i leader dei vecchi partiti “fratelli”. In quella fase storica, occorre ricordarlo, i vertici sovietici erano infatti più che altro impegnati a tessere nuove e più strette relazioni con l’Occidente e a guardare al loro interno.

Aver relegato in secondo piano quanto accadeva ad Est, in quello che era stato il “cortile di casa”, fu una scelta di cui Mosca si sarebbe pentita in futuro (già con El’cin) e i cui effetti si fanno sentire ancora oggi e soprattutto oggi.

Un nuovo Patto di Varsavia ed una nuova NATO: il progetto (l’utopia?) di Gorbačëv nel 1989

“La transizione verso un periodo di pace della storia europea richiede garanzie attendibili di mutua sicurezza. Il lavoro fatto a Vienna è un passo in questa direzione. Questo solleva inevitabilmente anche il problema del nuovo ruolo del Patto di Varsavia e della NATO. Per quanto riguarda l’immediato futuro, siamo a favore di una loro trasformazione in organizzazioni di difesa politica, finalizzate alla creazione sia di contatti a breve termine sia di relazioni continuative e reciprocamente vantaggiose, nonché all’istituzionalizzazione della cooperazione tra i due blocchi. Ciò può fornire un nuovo e significativo contributo al rafforzamento della sicurezza in Europa e potrebbe portare a un livello di fiducia che ci consentirebbe di prendere in considerazione lo scioglimento di entrambe le alleanze”.

Così il sesto ed ultimo punto del documento (mai pubblicato fino al 1998) che Michail Gorbačëv inviò il 24 novembre 1989 ai dirigenti della SED, il partito comunista della Germania Est, in preparazione ad un incontro con loro.

Dal passaggio si può intravedere la volontà, da parte di Mosca, di un superamento del ruolo e delle funzioni delle due alleanze militari, e quindi anche della NATO, per arrivare alla definizione di una nuova fase storica, improntata alla cooperazione.

Un progetto, com’è noto, rimasto incompiuto o inattuato. A questo proposito è utile ricordare che dopo il 1991 anche la Russia si sarebbe dotata di una nuova alleanza militare, ovvero la CSTO (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, Organizatsiya Dogovora o kollektivnoy bezopasnosti).

Bombe al confine polacco: la guerra è vicina?

Quando i media sottolineano con enfasi che la Russia ha colpito una base nemica a pochi km dal confine polacco, quando parlano di attacco alle porte dell’Europa e della NATO, quando un giornale come Repubblica scrive: “Ucraina, attacco a Ovest. Mosca porta la guerra al confine della Nato”, lo scopo è alzare il livello della tensione (per motivi politici o di marketing), sottoponendo l’opinione pubblica ad una pressione sempre maggiore, facendola addirittura pensare al rischio di una Terza Guerra Mondiale, all’olocausto termonucleare.

Si parte cioè da una notizia vera, e in questo caso di per sé poco rilevante (in guerra è logico e normale attaccare le basi nemiche, indipendentemente dalle loro coordinate), ma se ne altera, con destrezza, la forma. Un esempio di “mal-informazione”, purtroppo sperimentato nei due anni di pandemia-sindemia.

Perché la nuova distensione dipende soltanto dalla Russia

putin3Caratterizzati da alterne fortune, i rapporti USA/NATO-Russia del post 1991 hanno conosciuto un brusco peggioramento ed una regressione al clima guerrafreddiano a cominciare dall’era del secondo Bush (2001-2009).

Oggetto del contendere, all’epoca, l’installazione del sistema antimissile ABM in Europa, percepito da Mosca come un tentativo di minare il suo potenziale di dissuasione nucleare, e l’allargamento della NATO ai Paesi dell’ex Patto di Varsavia.

Negli ultimi anni, invece, a gettate benzina sul fuoco nelle relazioni tra Est e Ovest è la politica proiettiva del Kremlino nell’area dell’ex blocco sovietico (Ucraina, Repubbliche baltiche, Moldavia, Georgia, Polonia); è proprio da qui, dall’esigenza di fermare l’avanzata putiniana a danno dei vicini, che prende vita la scelta di imporre a Mosca sanzioni di tipo economico, l’unica alternativa allo scontro militare-termonucleare.

Se, dunque, si vorrà recuperare il filo di un dialogo tra le due sponde della grande politica mondiale (anche in funzione anti-terroristica), il compito di fare il primo passo, rispettando l’integrità territoriale e il diritto all’autodeterminazione delle nazioni, sarà solo e soltanto di Vladimir Vladimirovič Putin.

L’inferiorità russa e la paura dell’apocalisse: perché non scoppierà mai la III Guerra Mondiale tra Est e Ovest

bombat“Quella crisi ci insegnò una lezione fondamentale su cosa doveva essere fatto per prevenire la guerra nucleare. Per quasi 30 anni, quelle divennero le regole e i limiti del gioco nucleare e dell’importante, volubile e pericolosa relazione tra Washington e Mosca” – Anatoly Fyodorovich Dobrynin, ambasciatore sovietico in USA (1962 – 1988)

“La crisi ci portò sull’orlo del baratro. Lo avevamo visto, ci eravamo spaventati a morte e capimmo che non avremmo dovuto spingerci mai più fino a tanto” – Nikita Sergeevič Chruščëv, premier sovietico (1958 – 1964)

Le frasi riportate si riferiscono alla Crisi dei Missili di Cuba del 15 – 28 ottobre 1962. In quell’occasione, per la prima volta dall’inizio della Guerra Fredda (1945/1949), il mondò e i leader delle grandi potenze si trovarono sull’orlo di un confronto termonucleare capace di portare all’estinzione della razza umana; il terrore scaturito dall’evento ebbe come conseguenza i progetti bilaterali di disarmo (i Trattatati SALT) e il “congelamento” delle lancette del Doomsday Clock* (soltanto nel 1979** e nel 1983***, e per motivi del tutto causali, casuali l’umanità si sarebbe avvicinata nuovamente all’ Armageddon).

Lo spettro del MAD (Mutual Assured Destruction – Mutua Distruzione Assicurata) era (ed è), quindi, un fattore di deterrenza capitale, che fa della guerra atomica un’ipotesi dalle conseguenze inaccettabili per ciascuno dei contendenti, anche per l’ipotetico vincitore. A rendere del tutto disancorato da ogni analisi razionale il pericolo di un confronto tra l’Occidente e la Russia, tuttavia, non c’è soltanto il MAD ma anche l’inferiorità, sotto i profili militare, economico, demografico e politico-strategico, di Mosca rispetto ai principali “contenders” ( appunto, gli USA la NATO).

Il contributo esaminerà, sulla base dell’elemento statistico e documentale, ognuno di questi aspetti, dimostrando tutta l’inconsistenza di ogni velleità muscolare (autentica o presunta) della Federazione Russa.

Forza militare

USA
Carri armati: 8,848
Aeri (totale): 13, 892
Navi (totale) 473
Personale militare attivo: 1,400,000
Armi nucleari: 2,150 testate attive
Spesa militare: 600 miliardi di dollari

NATO
Carri armati: 5,421
Aerei (Totale). 1,837
Personale militare attivo: 3,585,000
Missili: 10, 409
Spesa militare: 1.000 miliardi di dollari

Russia
Carri armati: 2, 550
Aerei (totale): 1, 389
Navi (totale): 280
Personale militare attivo: 766,055
Missili: 5, 436
Armi nucleari: 1, 720 testate attive
Spesa militare: 84 miliardi di dollari

Forza economica-PIL nominale

USA: 17.418.925 (1 posto)
Russia: 2.097.000 (9 posto)

PIL nominale dei principali membri NATO:

Germania: 3.859.574 (4 posto)
Francia: 2.945.146 85 (5 posto)
UK: 2.846.889 (6 posto)
Italia. 2.147.952 (8 posto)

Forza demografica-numero di abitati

USA: 325 127 000 (3 posto)
Russia: 143 975 923 (9 posto)
Totale Paesi NATO: 885 milioni

Forza politico-strategica

Pur mantenendo un ventaglio di stati amici o “clientes”, dopo il 1991 Mosca non dispone più un’alleanza vasta ed organica come fu il Patto di Varsavia, mentre la NATO non soltanto è sopravvissuta ma si è ampliata e perfezionata. Questo, per il Kremlino, non costituisce uno svantaggio soltanto dal punto di vista militare ma anche strategico, dal momento in cui non può più fare affidamento sulla cintura protettiva dei vecchi alleati, ma, anzi, li trova a ridosso dei suoi confini, all’interno di una coalizione virtualmente nemica (ai tempi del Blocco Sovietico era invece l’Europa democratica ad avere le truppe del Patto di Varsavia alle porte di casa).

L’incognita ABM

Si è parlato, all’inizio del contributo, del rischio MAD, che renderebbe una guerra termonucleare catastrofica per ciascuna delle parti. E’ tuttavia utile e necessario ricordare la possibilità, da parte del blocco atlantico, di schierare apparati di difesa anti-missile (ABM) basati sui sistemi MIM-104 Patriot e AEGIS/RIM-161, capaci, in linea teorica, di rendere obsoleto ed inservibile l’equipaggiamento nucleare russo (lo schieramento dell’ ABM ai confini russi è infatti, insieme all’allargamento della NATO ad Est, uno dei maggiori motivi di attrito tra Mosca e l’Occidente)..

Conclusioni

La disamina mostra ed evidenzia dunque tutta l’impraticabilità di una sfida frontale e concreta, da parte russa, allo storico avversario; sebbene Mosca stia portando avanti un rinnovamento del suo hard power (molti dei suoi mezzi risalgono ad ogni modo ancora all’era sovietica), l’inferiorità militare e tecnologica dei suoi mezzi, della sua economia, della sua tecnologia e in tutti gli altri settori, confinerà gli allarmi su una III Guerra Mondiale, tanto cari a certi segmenti della politica e dell’informazione, nel sensazionalismo e nel propagandismo emotivo più spiccioli. Come abbiamo visto, la Russia temeva la guerra nel 1962, quando era la seconda (secondo alcuni osservatori, addirittura la prima) potenza mondiale; è ragionevole, giusto e legittimo pensare la tema molto di più oggi.

*Orologio dell’apocalisse (Doomsday Clock in inglese) è una iniziativa ideata dagli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago nel 1947 che consiste in un orologio metaforico che misura il pericolo di una ipotetica fine del mondo a cui l’umanità è sottoposta

**9 novembre 1979: gli equipaggi dei missili balistici LGM-30 Minuteman americani vennero messi in stato di massima allerta dopo che il computer comunicò il lancio da parte dei sovietici di un massiccio attacco nucleare contro gli Stati Uniti; l’allarme era in realtà generato da un video di esercitazione, erroneamente trasmesso sui computer del sistema di primo allarme americano. L’allarme raggiunse il NORAD, provocando il panico e scatenando reazioni disordinate; solo dopo sei minuti la rete satellitare americana diede conferma che nessun attacco sovietico era in corso

***26 settembre 1983: a causa di un malfunzionamento, un satellite di pre-allarme sovietico rilevò erroneamente il lancio di cinque missili balistici americani diretti in URSS. Il colonnello Stanislav Petrov, in servizio nel centro di controllo della rete satellitare sovietica, si rifiutò di inoltrare l’allarme ai suoi superiori, dubitando dell’attendibilità di un attacco condotto con soli cinque missili; poco dopo, il guasto venne scoperto e lo stato di emergenza annullato

Vladimir Putin, l’Ucraina, i paesi baltici e gli errori sovietici del 1962. Come e perché l’uomo forte del Kremlino sta rischiando e che cosa sta rischiando.

nato-contro-le-bandiere-della-russia-44228586Una domanda che ancora oggi pungola gli storiografi in merito alla crisi di Cuba del 1962 è come sia stato possibile che i sovietici, solitamente prudenti ed accorti come giocatori di scacchi, possano essersi comportati come giocatori di poker (Claude Delmas), lanciandosi, cioè, in un’avventura tanto azzardata e rischiosa, dalle conseguenze imprevedibili e potenzialmente catastrofiche in primis per l’allora militarmente più debole URSS.

Le motivazioni di un simile passo falso vanno ricercate, a parere di chi scrive, in una sottovalutazione di fondo coltivata dall’establishment sovietico, e soprattutto da Nikita Sergeevič Chruščëv, nei confronti degli USA e di John Kennedy; la mancanza (scontata, per evitare una III Guerra Mondiale) di una risposta militare della NATO alla repressione dei moti ungheresi del 1956, il vantaggio sovietico nella corsa spaziale, la giovane età di JFK e le sue posizioni liberali, avevano infatti persuaso l’URSS, ma anche un certo segmento della pubblica opinione occidentale, del definitivo sorpasso comunista ai danni delle democrazie atlantiche e di una contestuale ed irreversibile debolezza di Washington.

In particolare, Chruščëv aveva avuto modo di corroborare le proprie convinzioni al vertice di Vienna del 1961, quando aggredì verbalmente il suo omologo americano sulla questione della corsa agli armamenti e riguardo il rischio di un escalation termonucleare, senza che JFK fosse in grado di opporre una risposta adeguata efficace (Kennedy si mostrò in quel frangente stupito ed imbarazzato dalla foga del suo interlocutore).

Lo sviluppo della CMC e la risolutezza del presidente statunitense smentirono tuttavia Chruščëv e il Kremlino, che spaventatati dall’ipotesi di un confronto con l’Occidente si affrettarono a ritirare (in cambio di alcune contropartite rimaste all’epoca segrete) i loro vettori dall’isola caraibica.

Allo stesso modo, Vladimir Putin sembra avere sottovalutato Barack Obama e l’Occidente, ma le sanzioni ai danni di Mosca e il brusco rafforzamento della presenza militare a difesa dei paesi baltici stanno smentendo questa “wishful thinking” dell’ex ufficiale del KGB, che adesso dovrà, nell’interesse del suo Paese, cercare di evitare di spingersi troppo oltre, così da non cadere nell’errore che fu di Chruščëv e che tanto costò al prestigio del gigante sovietico, rafforzando quello dell’avversario.

Perché la CMC?
La questione è ancora oggetto di dibattito. Secondo alcuni analisti, l’URSS non puntava alla ricerca di un vantaggio di tipo militare, collocando i suoi missili a Cuba (avrebbe potuto colpire gli USA anche dal suo territorio) ma a dotarsi di una contropartita così da chiedere, in luogo della rimozione dei missili, un trattato di pace con la DDR che portasse allo sgombero di Berlino Ovest da parte degli occidentali.

Confidando nell’assenza di una risposta americana, Chruščëv dette quindi prova di una grave ed imperdonabile mancanza di capacità di lettura geopolitica.

La politica “di potenza” clintoniana e il tradimento del nuovo corso gorbacioviano-bushano Le origini della nuova Guerra Fredda

Durante le battute conclusive della Guerra Fredda, Michail Gorbačëv e George H. W. Bush dettero vita ad una fase del tutto inedita nei rapporti tra le due superpotenze, nonché di totale riordino ed aggiornamento degli assetti yaltiani. Questo “new thinking” prevedeva non soltanto la fine della contrapposizione bipolare (già preconizzata nel 1989 con la cosiddetta “Dottrina Sinatra”) ma escludeva qualsiasi velleità occidentale nell’Est Europa appena liberato dal gioco sovietico.

Figura meritevole di rivalutazione e ben diversa dall’immagine tratteggiata da una certa pubblicistica “liberal”, il primo dei Bush alla Casa Bianca rigettava dunque qualsiasi ambizione egemonica, per approdare ad una “nuova architettura di sicurezza europea , non pensando alla possibilità che, invece, il vuoto creato dal ritiro dei sovietici dall’Europa centro-orientale potesse essere colmato dall’allargamento dell’Alleanza Atlantica agli ex membri del Pato di Varsavia” (de’ Robertis).

L’elezione di William Jefferson “Bill” Clinton , produsse tuttavia un cambio di indirizzo radicale nella politica estera statunitense; con la Direttiva presidenziale n25, infatti, Washington rilanciava in modo aperto il suo “interesse nazionale”, tornando de facto ad una politica “di potenza” ed unilateralista in aperto contrasto con le scelte precedenti concordate con il Kremlino. La scomparsa dell’interlocutore sovietico sulla scena mondiale ed europea, fece il resto, persuadendo gli occidentali di poter relegare in soffitta il principio di “equal footing” nell’interazione con Mosca.

L’allargamento della NATO ad Est (percepito dai russi come una grave minaccia alla loro sicurezza nazionale) e l’intervento, forse frettoloso e privo del placet ONU, in Serbia, sono il risultato di questo nuovo “concept” atlantico, diverso da quel “new democratic order” di impronta rooseveltiana e dal “new thinking” liberale ed inclusivo gorbacioviano-bushiano.

Da qui, hanno origine buona parte delle nuove fratture tra Occidente e Russia, in un vero e proprio corto circuito politico e diplomatico in cui la diffidenza genera diffidenza; timorosi dell’ex oppressore, infatti, i Paesi dell’Europa centro-orientale ed ex sovietici chiedono la protezione occidentale, rendendo ancor più ostile la governance russa.

Nda: il nostro Paese giocò un ruolo di primo piano negli sforzi per la ricomposizione della frattura con la Russia dopo la guerra alla Serbia. Con il vertice di Pratica di Mare voluto dall’Italia, infatti, veniva ripreso il dialogo NATO-Russia attraverso il nuovo NATO-Russia Council

Il New Deal internazionale e l’importanza di ONU, NATO e UE Perché la “politica di potenza” è una seducente catastrofe

Nelle fasi conclusive della Guerra Fredda, molti analisti* si domandarono se la fine dell’equilibrio bipolare che aveva contraddistinto la politica mondiale per cinquant’anni non avrebbe riprodotto uno scenario simile se non identico a quello precedente il 1945, ovvero con il ritorno all’unilateralismo ed alla “raison d’etat” come bussola delle cancellerie più importanti.

La preoccupazione degli osservatori era quella di una reintroduzione delle “shifting alliances”, instabili e pericolose, in sostituzione di quella “ragion di blocco” basata sul solidarismo d’emergenza che aveva assicurato la pace su larga scala a partire dalla sconfitta dell’Asse. Il rischio non si concretizzò, perché l’ONU seppe dimostrare tutta la sua tenuta, sebbene tra non poche storture ed ambiguità, realizzando il sogno, prima wilsoniano e poi rooseveltiano (“international new deal”), di una concertazione paritetica che fosse in grado di allontanare lo spettro di una deflagrazione tra le grandi nazioni (complice, anche la deterrenza nucleare e il principio della “mutua distruzione assicurata”).

Allo stesso modo, l’UE rappresentò e rappresenta il primo esperimento nella storia di partnership organizzata su base stabile, paritetica e collegiale tra attori una volta e per secoli in contrapposizione violenta, sul piano militare come su quelli strategico ed economico. Stesso discorso, sebbene con alcune differenze di fondo, per la NATO, che nel suo “strategic concept” come nel suo “fonding act” illustra la sua fisionomia di garante del diritto internazionale, braccio ed espressione di quell’ “international policy power” voluto da F.D Roosevelt ma mai realizzato pienamente dalle Nazioni Unite (all’ONU mancano, in buona sostanza, quei “denti” di cui parlava Hull**).

Se ne deduce dunque come la fine di questi importanti e consolidati nuclei di ordine democratico avrebbe conseguenze devastanti ed imprevedibili, come l’esposizione dei paesi minori alle mire egemoniche di quelli maggiori e il ritorno alla politica di potenza per le “middle” e le “regional power”, trovatesi senza copertura e quindi costrette ad un aumento delle spese militari e ad una corsa all’opzione atomica, con una pericolosa e diffusa escalation verso la proliferazione nucleare. Alla linea d’indirizzo collegiale interstatuale si sostituirebbe un nuovo ordine basato sull’unilateralismo e la divisione, dove i paesi maggiori vedrebbero una crescita irrazionale del loro potere e del loro margine di manovra consegnando gli altri alla vulnerabilità, all’instabilità e al declino economico (tra le vittime di questo stato di cose, i paesi europei, non più in grado di rivaleggiare con i nuovi protagonisti della globalizzazione).

*Di notevole interesse i contributi di John Mearsheimer (“Back to the Future”) e Gregory Treverton (“Finding an analogy for tomorrow”)

**Cordell Hull (Olympus, 2 ottobre 1871 – Bethesda, 23 luglio 1955), 47° Segretario di Stato americano, Premio Nobel per la pace nel 1945. Tra i padri delle Nazioni Unite.