L’aristocratica superficialità di chi ha sottovalutato Donald Trump

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Dato per outsider senza alcun margine di successo fino poche settimane fa, Donald Trump si sta avviando sempre più verso una nomination, quella repubblicana, che lo proietterà alla sfida presidenziale nel novembre 2016.

Una panoramica più attenta e meno frettolosa sul personaggio avrebbe tuttavia mostrato, fin dall’inizio, le sue potenzialità e possibilità di successo.

Rispetto agli avversari, il magnate newyorkese non ha infatti dalla sua soltanto una maggiore popolarità ed una maggiore disponibilità economica (ha annunciato che spenderà 2 mln di dollari al giorno in spot elettorali) ma rappresenta come nessun altro le istanze, i sentimenti e l’elettorato medio del Partito Repubblicano.

A differenza dell’Asinello, che dall’era Clinton seppe sterzare verso un più pragmatico centrismo (deponendo l’eredità “socialista” rooseveltiana spesa fino agli anni di Dukakis), l’Elefantino non è mai riuscito a compiere un’evoluzione dei suoi indirizzi, restando cristallizzato alla sua fisionomia novencentesca; Trump dà quindi voce a quell’elettorato tendenzialmente bianco, tendenzialmente cristiano e tendenzialmente reazionario che costituisce l’ossatura del partito che fu di Abramo Lincoln e poi di Barry Goldwather.

Sottovalutandone le chances, osservatori ed analisti hanno di fatto commesso un errore di “sopravvalutazione” della platea repubblicana, ritenuta immune dai richiami di un populismo tanto primitivo quanto inattuale.

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Perché Serenella Fucksia non è una martire della libertà di pensiero

L’espulsione di Serenella Fucksia dal M5S rappresenta l’atto conclusivo e naturale di un rapporto, quello tra la deputata e il partito di Grillo e Casaleggio, giunto ormai da un anno ad una fase di avanzato ed insanabile logoramento.

Se, dunque, l’accusa sui mancati rendiconti è da ritenersi un alibi per estromettere un soggetto divenuto incompatibile con il Movimento (Fucksia non è l’unico parlamentare inadempiente verso il Non Statuto), la decisione della senatrice di restituire l’eccedenza della diaria durante la votazione sulla sua espulsione si presenta come un atto biasimevole e scorretto, che mette in secondo piano qualsiasi mancanza, vera o presunta, della leadership pentastellata nei suoi confronti.

Consapevole di non poter evitare il plebiscito interno contro di lei, Fucksia ha infatti cercato di “salvare” in extremis la sua immagine pubblica scaricando la colpa della sua estromissione sul partito, con un’operazione (il rendicontamento, appunto) che avrebbe potuto fare da otto mesi ma che non ha mai voluto fare.

Elezioni spagnole: quando il “vento” iberico diventa un venticello

Spain's Prime Minister and People's Party (PP) leader Mariano Rajoy applauds during the final campaign rally for Spain's general election in Madrid

Nonostante la Spagna sia, dopo la Grecia, il membro dell’Eurozona maggiormente colpito dalla crisi (situazione aggravata da una fragilità endemica dell’impalcatura economica del Paese), il partito di governo è riuscito a confermarsi al primo posto, pur con un’evidente emorragia di consensi.

Dall’altro lato, l’alternativa anti-sistema di Pablo Iglesias avanza ma non sfonda, attestandosi in terza posizione dietro al PSOE, uno dei due bastioni della politica tradizionale spagnola.

Quarta e staccata la lista Ciudadanos – Partido de la Ciudadanía, altra forza con velleità di rottura.

Una disamina delle Elecciones Generales scevra da ogni tentazione ideologica o partigiana dimostrerà dunque come la balcanizzazione dello scenario parlamentare non si sia tradotta, di fatto, in un ribaltamento degli equilibri di potere a vantaggio delle nuove compagini e in una rivoluzione sostanziale.

Putin, Renzi, le sanzioni e l’ombra di Brzezinski: na scommessa che vale la pena tentare

 

Renzi-Putin-1024x620-1425580024Definendo il collasso dell’URSS “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, Vladimir Putin voleva alludere alla scomparsa di una patria per 25 milioni di suoi connazionali, trovatisi da un giorno all’altro all’interno di entità statuali nuove e non russe.

Dall’esigenza di tutelare questa comunità, percepita come minacciata, e da motivazioni di tipo economico-strategico, l’archè della nuova politica assertiva del Kremlino nello spazio dell’ex URSS (Ucraina, Georgia, Moldavia, ecc).

Lo scopo delle sanzioni nei confronti di Mosca è dunque quello di frenare o fermare, senza ricorrere al confronto armato, questo rigurgito neo-imperiale, proteggendo gli stati sovrani nati dal collasso del gigante socialista ed oggi messi in pericolo.

La scelta renziana di negoziare e rivedere le misure restrittive a danno della Federazione Russa ricalca quel “new thinking” brezinskiano-carteriano che, rigettando il precedente “linkage” voluto da Nixon e Kissinger e basato su un sostanziale ripiegamento degli USA sulla tema dei diritti umani nell’Est Europa, subordinava la distensione e gli scambi commerciali con Mosca ad un pieno rispetto, da parte dell’URSS, degli accordi di Helsinki sui diritti civili dei cittadini d’oltre-cortina (terzo “paniere” o “basket”) .

Magari una giocata troppo ardita, da parte del capo del governo italiano (da non sottovalutare, tuttavia, anche i grandi legami commerciali tra i due Paesi) ma forse capace di rendere i frutti sperati, soprattutto in considerazione delle gravi difficoltà patite in questo momento dalla Russia; pur non deponendo l’arma delle sanzioni ma scegliendo una linea più “morbida” e “flessibile” (del “bastone e della carota”), l’Occidente potrebbe, in buona sostanza, indurre Putin a rinunciare alle sue velleità espansionistiche senza che vengano macchiati ed intaccati la sua reputazione ed il suo consenso interno.

La propaganda politica e la delegittimazione dell’avversario da Colin Powell a Vladimir Putin

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Le accuse russe rivolte alla Turchia in merito all’acquisto di petrolio dall’ISIS (ad oggi prive di ogni riscontro documentale) ricalcano alcune metodologie classiche e peculiari della comunicazione propagandistica di tipo politico.

Da un lato, Mosca cerca infatti di delegittimare Ankara attraverso il sistema della “proiezione” o “analogia” e dell’ “etichettamento” (l’avversario viene associato all’idea, respingente, dello stato islamico e del terrorismo) mentre, dall’altro, cerca di fare appello alla lotta contro il “nemico comune” (il fondamentalismo), elemento a sua volta legato alla giustificazione dell’iniziativa putiniana in Siria (“bontà delle nostre guerre”- “guerra giusta”), in realtà a vantaggio esclusivo dell’alleato-cliente assadiano.

Si tratta, in linea di massima, di propaganda “grassroots” (rivolta agli strati intellettualmente e culturalmente meno evoluti della platea) ma capace di sfondare , grazie alla componente ideologica (l’odio anti-islamico e quello anti-americano), anche nei settori più avanzati della pubblica opinione.

Putin sceglie dunque le stesse procedure persuasive tipiche dell’Occidente e che videro un largo impiego a Washington ai tempi delle campagne dei primi anni 2000.

Nella foto: Vladimir Putin e  Recep Tayyip Erdoğan

Unioni Civili: perché Renzi non le vuole

renzi_francesco_2La decisione del governo greco di avanzare verso il riconoscimento delle unioni civili ha riportato anche in Italia l’attenzione sul tema e sul DDL Cirinnà.

A frenare Matteo Renzi, nonostante le promesse di un adeguamento agli standard occidentali, tuttavia, il timore di perdere l’appoggio di quel “fattore K” (il consenso dei centristi e dei conservatori) che fino ad oggi è stato la sua arma in più rispetto ai precedenti leader del centro-sinistra, come il timore della rappresaglia vaticana.

I “tackle” di Francesco e del cardinale cardinale Vallini su Marino sono infatti e senza dubbio da considerarsi una ritorsione per le politiche inclusive (in primis il registro delle unioni civili) volute e promosse dall’ex borgomastro romano.

Qui, prima ancora che sulla resistenza del NCD, riposano le cause dell’inerzia governativa in materia.

Perché Donald Trump non va sottovalutato: la lezione del 1980.

donald-trumpSecondo il columnist del “Guardian” Gary Younge, “il 7 dicembre, dopo aver invocato il divieto d’ingresso negli Stati Uniti per i musulmani, la sua presenza (di Trump ndr) è diventata così ingombrante che anche i critici più sprezzanti hanno dovuto smettere di far finta che non esistesse”.

Non è infatti un caso se nella patria del politicamente corretto, in cui dire “nero” invece di “afroamericano o “bianco” invece di “caucasico” può quasi portare all’incriminazione, un candidato di altro profilo sia rimasto in testa nei sondaggi dopo aver attaccato gay, donne, messicani, cinesi e disabili ed abbia visto aumentare il suo margine di vantaggio dopo un affondo tanto virulento alla comunità islamica.

Questo perché Trump riesce ad intercettare quella fetta di Paese “reale” , bianca e cristiana, che è numericamente maggioranza e che oggi si trova disorientata da una ripresa che stenta ad arrivare, da un minaccia terroristica che ha (ri)alzato la testa, dal trauma per il pantano afghano e iracheno, dalle smargiassate della Russia di Putin e da un mondo globalizzato e multipolare sempre più imprevedibile, ingabbiato nella sua fisionomia di eterno inconsueto.

A questa fetta di nazione, che non ha mai digerito le sottigliezze di un “politically correct” tanto inutile quanto irrazionale, che non è (soltanto) quella in salopette e paglia in bocca narrata da Bageant e dagli stereotipi liberal e che non è necessariamente proletaria o poco istruita, si rivolge il candidato repubblicano, forte anche del suo excursus da “homo novus” capace di richiamare il mito dell’ American Dream.

Sottovalutare o snobbare Trump, consideralo poco credibile per i suoi vezzi estetici e per la sua retorica borderline, sarebbe dunque un errore clamoroso ed una semplificazione puerile, anche alla luce del fatto che le condizioni proposte dal mondo attuale sono molto simili a quelle del 1980, quando Ronald Reagan (pure di ben altro spessore rispetto all’immobiliarista newyorkese) si impose su Jimmy Carter e sul suo realismo pessimista con uno stile che seppe parlare a John Doe delle aspirazioni di John Doe con il linguaggio di John Doe.

Elezioni francesi: perché non bisogna preoccuparsi (ma perché deve preoccuparsi la sinistra)

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La lettura del successo del FN al primo turno delle regionali francesi necessiterà di un’ analisi, il più possibile razionale e disancorata dall’elemento emotivo, del contesto in cui essa si è prodotta e di quelli che sono i suoi reali contorni

Ogni condizionamento partigiano rischierà infatti di inquinare il giudizio su un fenomeno senza dubbio significativo ma (non ancora) dall’impatto e dalle dimensioni dirompenti.

In particolare, si dovrà ricordare:

-la tradizione democratica francese (il Paese non conosce una dittatura dal 1870), elemento che rende impossibile qualsiasi penetrazione ad opera di soggetti e proposte distanti dalla cultura liberale.

-la differenza tra le elezioni di carattere nazionale e quelle di carattere locale. Di rado, infatti, le compagini a trazione radical-populista hanno confermato a livello nazionale i successi registrati nei comuni, nelle province e nelle regioni

-l’eccezionalità e la transitorietà della congiuntura economica (la debolezza della ripresa) e geopolitica (gli attentati di gennaio e novembre) all’interno della quale si è originata l’affermazione del FN

-il cambiamento del partito lepeniano, oggi attestatosi su posizioni meno estremistiche rispetto al passato, fattore, questo, che rende meno probabile l’erosione (anche minima) dell’attuale status quo

Limitarsi alla denuncia isterica del successo di Marine Le Pen, è, da parte della sinistra francese ed europea, uno sterile esercizio di presunzione ed un’azione autolesionistica dal punto di vista elettorale; più proficua, anche per loro, una disamina lucida e raziocinante delle cause all’interno delle quali riposa l’exploit di ieri.

L’incapacità di dare ascolto all’ “everyman”, bollando come demagogica, populista e ventrale qualsiasi iniziativa ad esso diretta e rivolta, è, ad esempio, l’arma in più di partiti come il FN e il “vulnus” delle compagini tradizionali.

Il crocifisso e le aule “a pezzi”: quando il benaltrismo è laico (e di sinistra)

Contrapponendo, in un esercizio puerilmente benaltristico, la polemica sul crocifisso nelle aule alle carenze strutturali (vere o presunte) degli edifici scolastici italiani, il movimento d’opinione laico non si dimostra diverso da quel populismo d’accatto che, spesso, contesta e denuncia.

Si tratta, in ultima analisi, di un’arma retorico-propagandistica concettualmente debole, per questo priva di una sostanziale capacità di penetrazione e sedimentazione.

Le antistoriche pretese di Mosca sul Montenegro: un segnale per i moderati che guardano ad Est.

La protesta russa per l’imminente ingresso del Montenegro nella NATO costituisce, senza tema di smentita, un segnale sulle reali intenzioni imperialiste e antidemocratiche del Kremlino, sempre più orientato verso il recupero di quella Dottrina Breznev (della “sovranità limitata”) di sovietica memoria.

Benché il Montenegro sia una nazione indipendente (dunque libera di scegliere la sua politica estera) , membro ONU, membro UE, parte dell’Eurozona e collocata in un’area geografica, quella balcanico-adriatica, lontana dalla Federazione Russa, Mosca sembra infatti rivendicare su Podgorica una sorta di ” diritto di superficie” in ragione dell’esperienza storica yugoslava.

Dall’altro lato, l’invito a Podgorica dimostra tutta l’inconsistenza del potenziale deterrente russo al di là della retorica muscolare putiniana.