“Sovranità”, natalità” e “famiglia”: perché non sono “parolacce”

Se un ministero per la “sovranità alimentare” esiste pure nella Francia di Emmanuel Macron (ed ha in un certo senso dei precursori anche a sinistra, basti pensare alla “Via Campesina”) e politiche per favorire la natalità vengono intraprese in altri paesi occidentali e da governi conservatori come progressisti (essendo il calo demografico una minaccia esistenziale per una nazione), la tutela di un concentrato di ricchezze ed eccellenze qual è il “Made in Italy” non potrà che essere considerata positiva e razionale.

Termini come “sovranità”, “natalità” e persino “famiglia”* sono tuttavia dei “frames” che a livello neurologico richiamano e attivano, in una parte degli elettori di sinistra, il ricordo del Ventennio, e di conseguenza tutto quello che è ad essi collegato viene percepito in chiave negativa e dunque respinto (si consigliano a tal proposito gli studi di Lakoff).

Ma c’è di più.

Per ragioni storiche ben note (un’interpretazione arbitraria dell’internazionalismo marxiano, ad esempio, oltre al già citato “tabù” dell’esperienza fascista), anche il rimando alla difesa dell’interesse nazionale e a tutto ciò che sia vagamente identitario è inteso e bollato da costoro come sbagliato, pericoloso, minaccioso ed anacronistico. Un approccio “innaturale”, oltre che autolesionistico, che ha contribuito, in un’ultima istanza, a rendere quella sinistra impopolare, ad allontanarla dal cosiddetto “paese reale”, dai cittadini e dai loro bisogni.

*con il riconoscimento delle unioni civili, anche i legami tra cittadini dello stesso sesso sono e saranno tutelati dalle politiche per la famiglia

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Perché la “metamorfosi” di Conte non è una sorpresa

La “metamorfosi” di Giuseppe Conte, da compassato Presidente del Consiglio (adorato nei mesi pandemici anche da quella sinistra all’epoca innamorata della linea chiusurista “senza se e senza ma”) a Masaniello ondivago, stupisce solo se non si prende in considerazione la natura del soggetto, che è assai ambiziosa (nel volgere di 24h passò dal governare con la Lega salviniana a governare con il PD e LEU), e se non si prende in considerazione la natura, endemicamente populista, del M5S.

L’ “avvocato del popolo” si sta quindi solo adeguando al nuovo ruolo, ormai l’ennesimo, per di più costretto ad accentuare certi aspetti radicali del suo movimento nel tentativo di fargli recuperare voti e consensi.

Quando Mosca lavò i panni sporchi in pubblico (nell’acqua dei fiumi kazaki)

Nel gennaio 1987 la decisione di silurare il Primo Segretario del PCUS kazako, il brezneviano e corrotto Dinmuchamed Achmedovič Kunaev, e di sostituirlo con un russo, il gorbacioviano Gennadij Vasil’evič Kolbin, diede origine a grandi malumori in tutta la Repubblica Socialista Sovietica Kazaka (fomentati anche dallo stesso Kunaev), destinati a sfociare a dicembre in scontri di piazza che richiesero l’intervento non solo delle milizie locali ma pure dei reparti speciali del Ministero dell’Interno e l’imposizione del coprifuoco.

Allontanandosi da una tradizione improntata alla più assoluta riservatezza, Mosca diede ampio risalto mediatico alla crisi, e questo sia per evidenziare la differenza tra il nuovo córso gorbacioviano ed il passato sia per lanciare un monito alle altre repubbliche asiatiche.

I moti kazaki del 1987, e quelli del giugno 1989 contro gli immigrati delle zone del Caucaso (accusati di avere salari e condizioni di vita migliori), dimostrano quanto drammatiche fossero le tensioni etniche nell’URSS e quando il gigante euro-asiatico fosse un’unione solo in via formale*.

*i kazaki, che protestavano anche contro il carovita e la scarsità di beni di prima necessità e di consumo, arrivarono a chiedere la deportazione degli immigrati caucasici (azeri, armeni, lezghini, ecc) nelle loro terre di origine

La “patata bollente” afghana e quella ucraina

“Con l’intervento (in Afghanistan, ndr) abbiamo commesso una delle più pesanti violazioni alla nostra legge, al nostro partito ed alle norme del diritto […] la decisione è stata presa alle spalle del popolo […]”

Queste le parole del Ministro degli Esteri dell’URSS Eduard Shevardnadze, nel corso di un intervento davanti al Soviet Supremo il 23 ottobre 1989.

Shevardnadze aggiunse poi che né lui né Gorbačëv, a quei tempi (1979) membri candidati del Politburo, erano stati avvisati della cosa.

Il giorno seguente gli fece eco il portavoce del governo sovietico Gennadi Gerasimov, il quale davanti ai microfoni della ABC “scaricò” la responsabilità di quel conflitto su Leonid Brežnev, sull’allora Ministro della Difesa Dmitrij Fëdorovič Ustinov e sull’allora Ministro degli Esteri Andrej Gromyko (nel frattempo tutti deceduti): “[…] a decidere furono in tre o forse, al massimo, in quattro […] stiamo ancora indagando su chi siano stati i veri responsabili […]”

Se è possibile che Shevardnadze e Gorbačëv non fossero stati avvisati del “blitz”, poi trasformatosi in una disastrosa guerra di logoramento per Mosca, è invece da escludere vi si fossero opposti pubblicamente. Al contrario, Gorbačëv rilanciò l’impegno militare, almeno nei primi mesi della sua leadership. Adesso, tuttavia, rinnegavano la linea dei loro predecessori (e i loro predecessori stessi), grazie al fatto di non essere stati coinvolti nelle decisioni del 1979, di non esserne sostanzialmente responsabili. Una “lezione” della Storia, che potrebbe risultare utile anche nell’analisi della questione ucraina; se infatti è vero che Putin “non può perdere”, ossia che non accetterà mai uno smacco plateale, è altrettanto vero che per i suoi successori la questione avrà un significato diverso, consentendo loro di gestirla con maggior pragmatismo e maggior equilibrio proprio come fece Gorbačëv con l’Afghanistan rispetto a chi era venuto prima di lui.

I rossobruni: le mani libere della nuova Russia

Pur non prescindendo mai dalle esigenze della realpolitik e della raison d’état, fino al 1992 Mosca era comunque limitata, nel suo approccio strategico alla politica estera, dalla componente ideologica.

Oggi può invece muoversi in assoluta libertà e con assoluto pragmatismo, avvicinando, sostenendo e finanziando in linea teorica chiunque e qualsiasi tipo di progetto, purché funzionali agli interessi del Paese e del Kremlino.

L’innaturale “alleanza” tra destre e sinistre “radicali”, visibile nella questione ucraina ma non solo , è anche una conseguenza diretta di questo nuovo stato di cose, di questa nuova e aggiornata scelta di indirizzo.

Corna e Covid: quei “segnali” di cui dobbiamo far tesoro

Benché i movimenti protagonisti dei fatti di Washington siano in parte riconducibli a peculiarità del tutto americane e statunitensi e benché la loro azione non abbia avuto conseguene politiche destabilizzanti, la violazione del Campidoglio è e resta un evento di enorme portata simbolica e immaginifica, impensabile fino a quando non si è verificato. A posteriori andrà quindi letto anche come un “monito”, ai governi occidentali (e non solo), in epoca di Covid (e non solo); proseguire in una condotta, sotto il profilo gestionale, politico e comunicativo, che esaspera una situazione già di per sé tesissima e complessa, può portare a risultati imprevisti e potenzialmente deflagranti e ingestibili, persino in contesti moderni ed evoluti. Tra i “bufali” di Trump non c’erano infatti solo suprematisti bianchi o nostalgici della Mason-Dixon Line ma pure gruppi critici verso l’approccio alla crisi sanitaria, forti di una base di consenso significativa.

Ritrovarsi con i proverbiali forconi in parlamento non è, insomma, solo un’iperbole. Oggi è andata “bene”, ma domani?

Mangia le ciliegie, mangia le pesche, si fa i selfie ed è fascista: la sinistra e la comunicazione “salvinicentrica”: cause, precedenti ed incognite

salvini odioSe la comunicazione del centro-destra si basa quasi sempre sui programmi e su tematiche di natura contingente (questo a prescindere dal giudizio che se ne vuole dare), escludendo la pandemia, fenomeno peraltro eccezionale e transitorio, la comunicazione e l’attenzione della sinistra sembrano invece orientate quasi soltanto su Matteo Salvini.

Ogni sua dichiarazione, ogni suo post sui social ed ogni suo scatto provocano infatti una catena di reazioni critiche , stizzite, violente e sarcastiche, negli avversari. Il leader del Lega sembra cioè l’oggetto di un’ossessione che va oltre le logiche del dualismo politico, come ieri lo fu Silvio Berlusconi. E proprio come ieri, la sinistra rischia di cadere in un errore marchiano, regalando visibilità al capo del Carroccio (quello che cerca) e favorendo una narrazione vittimistica che lo vuole bersaglio dell’odio.

Non è da escludere che dietro questo atteggiamento vi sia ancora il “trauma” storico legato al Ventennio, per cui la figura “forte”, il leader cosiddetto “agentico”, viene associato all’immagine e al ricordo del Fascismo (accadeva anche con il già citato Berlusconi e persino con Renzi), oltre un’intolleranza, qui eredità della pedagogia marxista e della Scuola di Francoforte, verso le tecniche della comunicazione propagandistica.

Appunti di spin doctoring Perché ti voto, perché non ti voto

(Di CatReporter79)

Sospesi sul confine tra politica e psicologia e oggetto di studi e ricerche interdisciplinari incapaci di dare una risposta univoca, i meccanismi alla base della scelta elettorale rispondono a criteri diversi e multiformi. A tal proposito, esperti di comunicazione e politologi li dividono in tre grandi paradigmi: approccio sociologico (Columbia approach), approccio psicologico (Michigan approach), approccio economico (Economic approach)

approccio sociologico: sarò orientato a votare per il partito/schieramento più vicino alla mia classe sociale, anche se questo non difenderà gli interessi di tale classe

approccio psicologico: sceglierò un partito/schieramento al quale mi sento legato “affettivamente”, perché votato già in precedenza dalla mia famiglia e/o dal mio gruppo sociale

approccio economico: opterò per il partito/schieramento che difende e rappresenta i miei interessi. E’ il voto più razionale, di fatto legato al tornaconto.

La contraddizione nell’approccio sociologico e le caratteristiche del voto psicologico aprono ad un ulteriore spunto di indagine: non sempre gli elettori scelgono il partito/schieramento che tutela i loro interessi. Anzi.

L’Europa del terrorismo e l’Europa degli anni ’30: l’inconsistenza di un paragone

nazifascismo

La nuova ondata di terrore che si è abbattuta sull’Europa ha fatto tornare, nell’agenda del dibattito, l’urgenza di un intervento basato sull’ “hard power” e, con esso, il paragone tra la resistenza davanti alla soluzione muscolare e l’attendismo dimostrato dalle grandi democrazie di fronte al nazifascismo nel secolo scorso.

 

La tesi (proposta anche da Enrico Mentana in un suo recente intervento) si dimostra, tuttavia, inefficace e semplicistica, perché disancorata dal criterio della contestualizzazione, base e snodo di qualsiasi indagine storiografica.

 

E’ infatti opportuno ricordare come l’Europa e gli Stati Uniti degli anni ’30 fossero reduci da un conflitto dalle proporzioni fino a quel momento inedite ed impensabili, la Prima Guerra Mondiale, che aveva coinvolto decine di stati , centinaia di popoli e tre continenti, seminando distruzione nel cuore dei centri abitati e lasciando sul campo 17 milioni di morti*, 20 milioni di feriti e mutilati e generando una crisi economico-finanziaria dalle proporzioni catastrofiche.

 

L’intreccio e l’analisi di questi elementi aiuteranno dunque a comprendere, e forse a giustificare, le resistenze di quei segmenti della pubblica opinione e della politica di allora dinanzi all’ipotesi di un nuovo e più devastante scontro con la Germania, forte, in aggiunta, dell’appoggio di due potenze vincitrici del precedente conflitto (Italia e Giappone).

 

*al numero di morti della Prima Guerra Mondiale andrà aggiunto quello dell’Influenza Spagnola (50 milioni stimati), pandemia direttamente legata la conflitto in quanto “esportata” dalle truppe statunitensi.

Dalla Siria al Mali passando per Parigi: il terrorismo e l’incapacità francese di adattarsi ai nuovi equilibri

Pffresentato e rivendicato come risposta alle politiche proiettive dell’Eliseo nello scacchiere africano, il blitz terroristico in Mali dimostra e conferma, al pari degli attentati dei giorni scorsi, come alla base dell’ondata di violenza che sta sconvolgendo la Francia non vi sia soltanto il fondamentalismo di stampo islamista.

Di nuovo, la difficoltà nell’imbastire una coalizione armata occidentale contro l’ISIS segnala tutta l’incapacità della “Grande Nation” di sostenere la sua (obsoleta) politica di potenza.

Un aggiornamento ai nuovi equilibri geostrategici e mondiali ed una presa d’atto del suo ruolo di “middle power” si fanno dunque sempre più urgenti per i nostri vicini, anche se questo comporterà la non facile messa in soffitta della “grandeur”.