Le invettive contro gli indecisi sul vaccino (indeciso non vuol dire no-vax) e le richieste di spogliarli delle libertà sancite dalla legge e dalla Costituzione, addirittura di negar loro le cure mediche qualora venissero colpiti dalle forme gravi del Covid, possono amareggiare ma non stupiscono.
Non stupiscono se si considera che, spesso, simili sortite giungono da individui e/o da settori della politica privi di un reale background democratico perché legati, per anni, a dottrine, ideologie e modelli illiberali solo di recente sconfessati (a volte nemmeno in maniera chiara e definitiva).
L’acquisizione di una mentalità realmente democratica e inclusiva passa da percorsi lunghi e difficili, non o non solo dal semplice cambio di una sigla, di un nome o di un simbolo, da segnali esterni ed esteriori.
A 20 anni dal G8 di Genova, un segmento (forse nemmeno trascurabile) dei “ribelli” di ieri è passato dall’altra parte della barricata, sostenendo multinazionali farmaceutiche, techno-corporation, multimiliardari statunitensi, media mainstream, potentati politico-economici continentali e difendendo misure sanitarie fortemente limitative delle libertà individuali e la narrazione alla loro base.
Una metamorfosi di per sé non sbagliata o negativa (dipende dai punti di vista) ma a ben vedere prevedibile. Molti di quei “ribelli”, presenti fisicamente o idealmente nel capoluogo ligure, erano e sono infatti dei “borghesi”, volendo usare un termine “retrò” ma senza dubbio esplicativo. Persone nate, cresciute e formatesi nella società borghese di un Paese ad economia capitalista del Primo Mondo; non falsi rivoluzionari o rivoluzionari da salotto, come sosteneva, magari in modo troppo “tranchant”, Ernesto Guevara, bensì parti integranti del “sistema”, dello status quo, di questo status quo.
Non è raro che il refrain (stupido e senza senso) “ok boomer” venga usato da soggetti che fanno anche parte del movimento d’opinione più “prudente” e rigido rispetto alla crisi sanitaria. Quelli che si battono (o dicono di farlo) per la strenua difesa dei “nostri anziani”, tra i quali vi sono proprio i “boomer”.
Un paradosso che dimostra come, per alcuni, il Covid e l’ “emergenza” siano solo una questione ideologico-politica e non etico-morale, un baluardo identitario avulso da ogni autentico e genuino afflato empatetico.
Chi ha deciso di non vaccinarsi non è sempre e soltanto un no-vax. Molte volte si tratta di persone magari anche favorevoli, in linea di principio, ai vaccini, ma in questo caso titubanti, per paura degli effetti collaterali di un ritrovato comunque nuovo e perché ancora non sanno, non ci viene detto, cosa e quanto sarà eventualmente concesso e garantito a chi si è immunizzato. Se, in parole povere, potremo tornare alla vita di prima (come sarebbe giusto e logico), una volta fatta l’iniezione.
Demonizzarli, metterli nel mucchio dei “complottisti” e degli “irresponsabili” e poi sparare su quel mucchio, significa non vedere o non voler vedere i loro timori e i loro bisogni legittimi. Significa restare in superficie, artefici e allo stesso tempo vittime di una polarizzazione brutale e irrazionale che contribuirà solo a rimandare la soluzione del problema rendendo quelle persone ancor più scoraggiate e indecise.
Bill si potrà anche vaccinare senza “rompere il ca**o”, ma un essere umano, un cittadino, è molto più di un meme. Forse, negli ultimi mesi, qualcuno lo ha dimenticato.
Al netto di ogni valutazione di natura costituzionale e giuridica, il Green Pass avrebbe una sua logica ed una sua utilità, dal punto di vista sanitario e politico, se inserito in un progetto razionale, responsabile e realistico, che punti al ritorno alla normalità per gli immunizzati e una volta coperti quanti più “fragili” possibile.
Se invece l’obiettivo è arrivare o avvicinarsi al chimerico “rischio zero” (come ventilato da Roberto Speranza, Gualtiero “Walter” Ricciardi e altri), continuando ad “inseguire” i semplici positivi e assegnando al loro numero la stessa importanza di quello dei morti e degli ospedalizzati, allora, con i vaccini oggi disponibili, il Green Pass diventerebbe carta buona per le uova o il pesce (in parte è già così).
La titubanza di molti, che ancora non hanno deciso se vaccinarsi o meno, nasce anche da questa ambiguità, da questo equivoco di fondo.
In piena ed aperta campagna vaccinale, l’opinionismo catastrofistico di certi ben noti pseudo-esperti (sarebbe superfluo farne i nomi), sempre presenti sui media ad annunciare senza alcuna prova alla mano che ogni nuova variante potrebbe “bucare” i vaccini e/o l’imminenza di nuovi ceppi capaci di fare altrettanto , è oltremodo pericoloso. Questo perché rischia di creare sfiducia e scoramento, convincendo le persone a non immunizzarsi, che sarebbe inutile immunizzarsi.
Benché possa sembrare una soluzione drastica, il governo e i partiti di maggioranza dovrebbero allontanare, e avrebbero il potere di farlo, questi personaggi (che peraltro non hanno spesso alcun ruolo nella gestione della crisi sanitaria) dalla ribalta mediatica, o, al limite, consigliare loro un profilo più basso, maggiore prudenza, maggior rigore scientifico.
Allo stesso tempo, la comunicazione istituzionale andrebbe rivista e corretta anche sotto questo aspetto, perché paventare nuove chiusure pur con una sufficiente copertura delle categorie “fragili” genera ugualmente scetticismo tra i cittadini sull’efficacia e l’utiltà finale della vaccinazione,
La comunicazione d’emergenza è ambito assai complesso e delicato, che impone competenze specifiche e non ammette l’avventurismo o l’improvvisazione.
Nell’accostarsi alla situazione cubana, molti occidentali, spesso anche analisti di indubbio prestigio, commettono l’errore di usare i loro parametri, i parametri del mondo occidentale, del Primo Mondo. Di conseguenza il confronto non potrà che risultare, nella maggior parte dei casi, impietoso per l’isola. Analizzando la realtà di Cuba inserendola in quello che è il suo contesto geografico e geopolitico, cioè l’area caraibica e meso-americana, apparirà invece un quadro molto diverso del Paese della “Revolución”.
Cuba non è una democrazia (non lo era nemmeno prima del 1959) e non è un Paese ricco, ma anche gli altri stati limitrofi hanno sperimentato o stanno sperimentando regimi non democratici o democratici solo sulla carta e sono storicamente imprigionati in una condizione di arretratezza e ritardo. A differenza loro, però, i cubani hanno potuto godere di 62 anni di stabilità, autonomia, sicurezza e, soprattutto, possono fare affidamento su un sistema avanzato in settori-chiave della società, come l’istruzione, la sanità e il welfare, con parametri non lontani, se non talvolta superiori, a quelli occidentali.
Sandro Pertini diceva che la peggiore delle democrazie è preferibile alla migliore delle dittature, ma un lucido esercizio di realismo impone, in casi come questo, riflessioni più approfondite e disincantate. Il Cuba Libre è buono ed ha un buon sapore, ma se la fine del Socialismo (di ciò che ne resta) significa tornare ad essere una “repubblica delle banane”, una delle tante, un bordello e un casinò a cielo aperto, terreno di caccia degli USA , dei potentati stranieri e delle mafie, se i cubani devono vedersi portar via, in nome di qualche obsoleta teoria pseudo-liberista, i diritti sociali acquisiti , o, peggio, se devono trovarsi scaraventati in una drammatica instabilità come quella dei popoli usciti dalle “primavere arabe”, allora, forse, è meglio posarlo sul bancone e rimandare la bevuta.
“Ma buon Dio! Ma che ci sia una sosta nelle preoccupazioni, nella tristezza e nelle insoddisfazioni: che ci sia un po’ di sosta! Dopo sei giorni di lavoro viene la domenica, no? Chi ha lavorato sei giorni avrà diritto di andarsene con la famiglia a gioire sulla spiaggia, in montagna, o altrove. Che gli si deve dire? Oh, ma come mai gioisci? Guarda che ti attende il lunedì!”
Così Sandro Pertini nel 1982, a un giornalista che gli chiedeva se la grande esultanza per la vittoria al Mundial spagnolo non rischiasse, come paventato da qualcuno, di far dimenticare i problemi del Paese, di un Paese.
Aveva ragione, Pertini, che per inciso non era un superficiale ma un uomo che aveva conosciuto e sperimentato il peggio della vita e degli uomini; il calcio non è solo calcio, non è solo sport, e sbaglia chi non vuole rendersene conto. Ma sbaglia anche chi lo ritiene una “semplice” emozione. A certi livelli, su certi palcoscenici, il calcio e lo sport trascendono e diventano politica, geopolitica, cultura, costume, economia, diplomazia. Ed è così dall’età Antica, dall’antica Grecia. Si potrebbe scrivere un trattato di Storia o di scienze a sociali a riguardo, e infatti ce ne sono, ce ne sono tantissimi.
Pensiamo, ad esempio, al valore ed al significato di Olimpiadi come quelle del 1936 o quelle del 1980 e del 1984 (del “boicottaggio”), ai Mondiali di calcio del 1978 o a quelli di rugby del 1995, che diedero al “nuovo” Sudafrica l’oppotunità di mostrarsi, e di farlo in maniera vincente, al mondo. Si pensi a match di pugilato come la duplice sfida tra Max Schmeling e Joe Louis, con l’America rooseveltiana e la Germania hitleriana che si sfidarono sul ring prima che sulle spiagge della Normandia, e al Tour de France del 1948. Si pensi all’influenza, nella società e nella politica, di atleti del calibro di Muhammad Ali, Jackie Robinson, Tommie Smith, John Carlos, Arthur Ashe, Greg Louganis, Diego Maradona, Primo Carnera o i già menzionati Schmeling e Louis.
La Guerra Fredda si consumò non sui campi di battaglia, per nostra immensa fortuna, ma su quelli da gioco, dove USA e URSS, Est e Ovest, ebbero l’occasione di mostrare la qualità e la superiorità dei rispettivi modelli.
Si consideri, inoltre, il ruolo che i successi sportivi hanno avuto per la Germania Ovest nel secondo dopoguerra, aiutandola a riscostruire la propria immagine. Stessa cosa per la Spagna degli anni 2000, i cui calciatori, cestisti, piloti e tennisti le hanno permesso di accreditarsi come un Paese moderno e competitivo, dopo i decenni bui del franchismo e dell’aretratezza. E quanto merito hanno avuto, le arti marziali nel promuovere la cultura dell’Oriente? Moltissimo. Il Brasile punta oggi all’ingresso nel club delle grandi potenze, a non essere più solo la nazione delle favelas, anche in virtù dei suoi ambasciatori nelle discipline sportive. Tornando al 1982, grande fu l’impatto sulla nostra economia e su noi tutti. Quel successo, per diversi storici è stato addirittura uno spartiacque tra gli “anni di piombo” e i “dorati” anni ’80.
Si chiama, risiamo alla geopolitica, “soft power”, ovvero “l’abilità di un potere politico di persuadere, convincere, attrarre e cooptare, tramite risorse intangibili quali cultura, valori e istituzioni della politica”* ed è spesso molto più potente, incisivo e duraturo dell’ “hard power”, il potere che deriva dalla forza militare. E nel “soft power” rientrano le arti, tutte e sette, la moda, la cucina, la lingua, e, appunto lo sport, gli sport.
Si è parlato anche di diplomazia; bene, lo sport non è esclusivamente un terreno di “scontro” ma pure di confronto, di dialogo. Chi può dimenticare la “diplomazia del ping pong” tra gli USA di Nixon e la Cina di Mao?
Da ieri, un italiano qualsiasi che si trovi all’estero non sarà, volendolo spiegare meglio, un anonimo turista o un anonimo “expat”, ma il simbolo e l’ambasciatore di un sistema che funziona e sa competere, in un ambito importante e popolare, che attira l’attenzione.
Non è solo calcio, non è solo sport, non è solo emozione. E’ prestigio, è forza, è genio. Ed è una serie infinita di opportunità, a 360 gradi, che aspettano di essere colte. Non riguarda più solo Roberto Mancini ma pure Mario Rossi e non perché la FIGC si mantiene anche con le tasse del contribuente. Non comprenderlo, snobbare con alterigia il trionfo di Wembley (“è solo una partita”, “adesso cos’è cambiato?”), significa non conoscere il passato e nemmeno il presente.
*Robert Keohane-Joseph Nye, “Power, Interdependence and the Information Age” from Conflict After the Cold War
I festeggiamenti per l’Europeo, in Italia come nel resto del continente, sono la spia rivelatrice, la manifestazione di un bisogno, naturale e quindi insopprimibile, che è quello del ritorno alla vita “reale”, alla socialità, allo stare insieme. E sono un monito. Limitarsi a stigmatizzarli, a puntare il dito, ancora e di nuovo, sarebbe infatti miope e controproducente, per i cittadini e per le istituzioni, come miope e controproducente sarebbe voler rincorrere una “massima sicurezza” impossibile, cedendo all’isteria anti-scientifica ad ogni minima e inoffensiva variazione della curva dei positivi. Facendo, in poche parole, carta straccia dei risultati della campagna vaccinale.
Oggi le persone sono scese in piazza per fare festa, ma non è da escludere che domani, se non cambierà l’atteggiamento dei decisori, vi possano tornare, ma con altre intenzioni.
“La libertà e la vita appartengono a quelli che le conquistano ogni giorno” (Johann Wolfgang Von Goethe)
Anche la morte della Carrà ha offerto lo spunto al “black humor” per qualche incursione iconoclasta. E’ ad ogni modo interessante notare come certe categorie siano invece tutelate persino dai dissacratori più pungenti; tra queste, le vittime del Covid. Per qualcuno, insomma, si può e si deve scherzare e ironizzare su tutto e tutti in nome di un materialismo caustico e spavaldo, ma non lo si può fare sul virus cinese e sui morti/ospedalizzati che gli vengono attribuiti.
Un fenomeno per certi versi curioso, ma niente affatto imprevisto o imprevedibile, che dimostra come un certo movimento d’opinione (il quale ha in Italia una sua precisa collocazione politica) abbia “slaicizzato” il virus, proiettandolo in una dimensione che non è più quella della razionalità e del metodo scientifico ma dell’emotività, del pàthos ideologico, della polarizzazione più miope e fanatica.
Anche da qui, da questo approccio “confessionale” diffuso, derivano molti dei problemi nella gestione dell’ormai infinita “crisi” sanitaria.