“Gaza, oltre 300 sopravvissuti alla Shoah contro Israele”.Anzi, no. Anzi, si. Anzi, forse.Astuzie e distorsioni

Secondo numerose ed autorevoli fonti giornalistiche, nazionali come internazionali, oltre 300 sopravvissuti alla Shoah avrebbero pubblicato una lettera a pagamento sul New York Times per condannare “il massacro di palestinesi a Gaza” e, contestualmente, gli USA e l’Occidente per il loro appoggio a Tel Aviv.

Un gesto carico di significato, dunque, dal momento in cui la critica ad Israele arriverebbe, questa volta, dal suo interno e, per di più, dai reduci della più grande tragedia abbattutasi sul popolo ebraico nella sua storia conosciuta.

Il ricorso al “fact checking”, tuttavia, farà emergere e consentirà di evidenziare alcune manipolazioni e distorsioni della notizia tese ad alterarne la sostanza, insieme alla forma, a scopo propagandistico.

Non soltanto, infatti, i sottoscrittori non sono 300 bensì 226, ma, cosa più importante, soltanto 32 sono “survivors” ( persone nate prima del genocidio nazista e che vi hanno assistito, sopravvivendogli) e la stragrande maggioranza di loro vive e risiede lontano da Israele, non a diretto contato con il conflitto in corso con l’elemento arabo-musulmano, oggi come dal 1948.

Abbiamo assistito e stiamo assistendo, dunque, ad un caso di propaganda “grigia” (parzialmente falsa), elaborata allo scopo di “caricare” la componente emotivo-emozionale della lettera così da aumentarne la forza d’impatto sulla pubblica opinione

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Il “debunking” della storia.Dalle atrocità della Rivoluzione Francese lo smascheramento delle teorie del complotto sull’assassinio di James Foley.

Non appena conquistata la Bastiglia, gli insorti decisero di decapitare il comandante della fortezza, il marchese Bernard-René Jordan de Launay.

Riunitisi intorno al prigioniero, i rivoltosi non riuscivano tuttavia a decidere a chi sarebbe spettato l’ ”onore” di assassinare il militare, ormai indifeso, finché de Launay non colpì con un calcio (forse inavvertitamente) uno di loro, un cuoco.

A quel punto, la folla dispose che sarebbe toccato a lui il compito di vendicarsi del nobiluomo, vendicando così idealmente anche tutta la popolazione francese. Messagli in mano una sciabola, però, il cuciniere non riusciva a portare a compimento la sua “missione”; la spada non era abbastanza affilata.

Tolto dalla tasca un coltellino che gli serviva in bottega, prese allora a tagliare il capo a de Launay, in modo rapido, preciso e definitivo.

Gli insorti decisero subito dopo di fare irruzione anche in altre carceri della capitale, massacrando prigionieri incolpevoli tra i quali numerosi giovani e adolescenti.

Questo macabro frammento di storia e storiografia dimostra tutta la debolezza delle teorie dietrologiche che vogliono l’uccisione di James Foley (o il modo in cui essa è stata presentata) una montatura, dal momento in cui, secondo i complottisti, sarebbe impossibile decapitare un essere umano con un “semplice” coltello.
Se di montatura si tratta o si vuol discutere, non sarebbe certo quella la prova

Perché dire “Italietta” equivale a dire “sporco negro”.L’equivoco del razzismo “endogeno”

Non è infrequente imbattersi, sulle piattaforme virtuali come nei consessi “reali”, in commenti ad episodi di razzismo a loro volta ad elevato dosaggio di pregiudizio biologico. Protagonisti, individui che, nell’intento di manifestare il loro sdegno all’ìntolleranza, finiscono con il palesarne, nella stessa misura di coloro i quali vengo censurati, insieme ai loro atteggiamenti.

Se, ad esempio, l’episodio razzista accade in Italia, costoro si lanceranno in “tackle” sulla comunità e la cultura italiane, in modo generico e generalizzante, attraverso schemi comportamentali e registri comunicativi che respingerebbero con sdegno e vigore, se adottati nei confronti e ai danni di realtà altre e differenti.

Si tratta di una forma di razzismo “endogeno”, la cui pericolosità sociale non viene percepita in tutta la sua dimensione (sfuggendo anche alla classificazioni delle scienze storiche e sociali) in quanto chi la pone in essere lo fa, appunto, contro sé stesso, contro il proprio humus etnico ed ambientale.

Il razzista “endogeno”, inoltre, sarà persuaso di aver compiuto un gesto di elevata qualità civica e civile, screditando il proprio elemento comunitario in quel momento visto come contrapposto ad una categoria solitamente colpita dalla discriminazione.

Questo, renderà la sua correzione ancora più complessa e disagevole.

Adel Smith: come un razzista e intollerante divenne un campione delle libertà laiche.Astuzie e scorretteze del circo-circuito mediatico

Muore Adel Smith, lottò contro crocifisso in luoghi pubblici – La Repubblica

Morto Adel Smith, lottò contro i crocifissi nei luoghi pubblici – Il Secolo XIX

Islam: è morto all’Aquila Adel Smith lottò contro crocifissi nelle scuole – Il Messaggero

È morto ieri a 54 anni Adel Smith, famoso per campagne e presenze televisive
contro crocifissi e simboli sacri nei luoghi pubblici italiani -Il Post

Morto Adel Smith, il «nemico» del crocifisso nei luoghi pubblici – Il Corrirere della Sera

Questi, i titoli utilizzati da alcune delle maggiori testate giornalistiche italiane per i loro pezzi sulla morte di Adel Emiliano Smith, il teologo musulmano deceduto due giorni fa pressso l’ospedale San Salvatore dell’Aquila a causa di un male incurabile.

Potremo notare come i titoli opzionati suggeriscano l’immagine di un laico, impegnato, al pari di tanti altri, in una campagna di “secolarizazione” della società, secondo il modello delle più evolute democrazie occidentali.

Attuando un’operazione di scavo più apoprofondita sulla vita e l’opera di Smith, potremo tuttavia renderci contro di quanto le cose non stiano e non stessero esattamente in questo modo; il presidente dell’ Unione musulmani d’Italia lottò, si, contro l’ostensione della croce nei luoghi pubblici (prevista dalla nostra legge soltanto nelle scuole elementari, medie e nei tribunali) ma lo fece ben lontano dalle traiettorie del rispetto e del buongusto, gettando, tra le tante, il crocifsso da un ospedale e definendo il Nazareno “un morticino”.

In questo modo, Smith non soltanto ferì la sensibilità di milioni di fedeli (italiani e non italiani), ma adottò un comportamento di tipo colonialistico; essendo egli un egiziano, la pretesa di rivoluzionare, alterare e defenestrare (in ogni senso) le tradizioni di una comunità ospitante si inseriva infatti in un’ottica di dominio, nel caso di specie dell’elemento islamico su quello cristiano e italiano (il Cristianesimo è la religione più diffusa nel nostro Paese).

La stampa, quindi, ha scelto di alterare il fatto, a scopo ideologico, utilizzando una serie di astuzie che, in ultima analisi, fanno un torto alla deontologia professionale ed al lettore.

Finali diversi…

Mi piace pensare ad un finale diverso, ad una ucronia forse ingenua ma che, tuttavia, riesce a farmi stare meglio; il boia ritrova la sua umanità, vede in James Foley un ragazzo, come lui, che giocava negli anni ’80, proprio come lui, magari con il Commodore e l’Atari. Spezza allora le sue catene e lo regala alla libertà. James lo ringrazia, gli tocca le spalle e va via, scoprendo quel sole e quel cielo nuovi, prende il primo telefono e chiama i suoi cari. Le voci si incontrano, dando forma ai sogni. La sua vita è ancora lì, insieme alla sua testa, insieme alla sua speranza nell’altro. Scrive, poi, di quell’esperienza, e lo fa senza odio. Io leggo di lui, che ce l’ha fatta, e imparo qualcosa in più, su quel Paese lontano e sulle sue ferite. Purtroppo, però, è andata in modo diverso. Ciao, amico..da un ragazzo come te, che giocava con il Commodore e l’Atari, proprio come te.

Politici e costi della politica.Andando controcorrente

Un considerazione forse impopolare, quasi certamente sgradita, ad ogni modo sincera e consapevole; entrando a contatto, per motivi professionali e personali, con chi fa politica, ho avuto modo di rivedere alcuni dei pregiudizi che avevo coltivato, al pari di molti, sulla categoria.

Se svolto con senso del dovere, e soprattutto a certi livelli, si tratta infatti di un esercizio difficile e, si, anche usurante, sul piano intellettivo, psicologico e fisico (considerata anche la mole di responsabilità che un ruolo pubblico comporta).

Da ridimensionare , senza dubbio, il sistema di finanziamenti che nutre gli apparati della gestione collettiva, ma senza offrire punti di entrata al demagogismo ventrale, ottuso ed ottundente. Sarà dunque opportuna una retribuzione adeguata al compito ed alla funzione.

Dal Vietnam a Grenada fino al martirio di James Foley: come nacque il giornalismo “embedded” e perché a volte è necessario.

Forte ai suoi inizi di un consenso diffuso e trasversale, la guerra in Vietnam si trasformò ben presto nella spina nel fianco per gli Stai Uniti, sempre più incalzati dalle proteste e dalle critiche e costretti infine alla ritirata ed alla sconfitta, nel 1975, sotto Gerald Ford.

Complice della progressiva ostilità da parte della pubblica opinione al conflitto, il ruolo dei media, che per la prima volta nella storia portarono “a casa” la guerra, tramite la televisione. Le immagini dei giovani americani uccisi e mutilati, convinsero l’americano medio a dire basta alla campagna militare nata con l’incidente del Tonchino.

Ancora “scottati” da quell’esperienza, le autorità decisero di coprire con la censura l’informazione sullo sbarco di Grenada (1983), ma la scelta si rivelò un errore clamoroso, dal punto di vista politico e comunicativo. Nel tentativo di evitare le polemiche, infatti, l’amministrazione Reagan le attirò, insieme all’accusa di voler ostacolare la libera circolazione delle informazioni e, con essa, la democrazia.

Lo scivolone indusse allora Washington ad un cambio di rotta, che si concretizzò nell’adozione di una “terza via” nel rapporto con i media; né la libertà concessa in Vietnam ma nemmeno la censura adottata per Grenada. Il piano, elaborato dalla “Sidle Commission” (1984), una commissione composta dai vertici militari di allora, era quello, come ebbe a dire il senatore William Fullbright, di una “militarizzazione” della stampa. In buona sostanza, si decise di “ospitare” i giornalisti tra la truppa, consentendo loro di riprendere, fotografare e raccontare, ma, di fatto, sottoponendoli ad un controllo, continuo e costante.

Nasceva così la figura del cronista “embedded ” “(dall’inglese “incastonare”). Incastonato, in questo caso, tra l’esercito e le autorità.

Il giornalismo “embedded ” è spesso avversato da chi ritiene costituisca una forma di asservimento all’establishment, perché privo di una capacità di movimento autonoma e dipendente dalle fonti politico-militari e dalla loro protezione; se, da un lato, l’osservazione può trovare accoglimento, è pur vero che vicende tragiche come quella di James Foley dimostrano tutta l’impossibilità di svolgere la professione di Tucidide in modo sicuro e consapevole. Un consorzio progredito, sul piano civile e culturale, non dovrebbe infatti permettere a chi fa informazione di andare incontro al pericolo ed alla morte, lasciandolo senza forme di tutela e salvaguardia. La vita ha la precedenza su qualsiasi scoop, anteprima o fotografia.

Morte al Vaticano ma viva gli Imām

Perché la sinistra femminista, laica ed inclusiva giustifica l’oppressione del radicalismo islamico ai danni di omosessuali, donne, minoranze.

Le ragioni di un abbaglio.

E’ spesso motivo di incredulità e stupore una certa schizofrenia manifestata dai settori più radicali della sinistra italiana (ma anche straniera) tradizionalmente attenta e sensibile alle politiche di genere ed alla cultura dell’inclusione, e poi pronta a legittimare (anche con il silenzio) le declinazioni più aberranti dell’islamismo più fanatico ai danni delle donne, delle minoranze religiose e degli omosessuali.

Le motivazioni alla base di questa incoerenza di primo acchito assurda e indecifrabile, sono tuttavia facilmente rintracciabili e spiegabili analizzando le strategie e il “background” culturale delle piattaforme socialiste, nazionali come internazionali.

Più nel dettaglio, sono due le scelte alla base del loro “appeasement” verso il segmento più oltranzista della comunità arabo-musulmana, una di tipo tattico ed una di tipo storico e culturale.

La prima: l’attuale fase storica sta proponendo il ritorno di un confronto tra una parte del mondo arabo-musulmano e l’Occidente; di conseguenza, la sinistra marxista e antioccidentale (perché anticapitalista) sarà indotta a vedere nell’Islam radicale e nei suoi terreni di coltura l’ alleato in una battaglia comune.

La seconda: molti dei paesi afro-arabo-asiatico-musulmani sono stati e sono vittime della colonizzazione e della neocolonizzazione occidentale; la sinistra marxista, formalmente solidarista, ed antimperialsta, sarà quindi indotta ad interpretare la violenza sviluppata da e in quelle realtà come il prodotto dello sfruttamento e delle politiche aggressive dei paesi più avanzati (in quest’ottica culturale terzomondista andranno inquadrate anche le dichiarazioni di Alessando Di Battista sull’ ISIS-ISIL).

Ecco, dunque, perché individui pronti a battersi per le “quote rosa” e ad accusare la società italiana di maschilismo per la mancanza di sale-poppata per le deputate a Montecitorio, sono poi pronti a giustificare pratiche ripugnanti quali l’infibulazione o l’imposizione del burqa o, ancora, il matrimonio per le giovanissime.

Ecco, dunque, perché individui pronti a raccogliere firme per l’abolizione dell’ergastolo o ad indignarsi per una manganellata di troppo di un poliziotto, sono poi pronti a giustificare il taglio della mano ai ladri o l’impiccagione in Iran.

Ecco, dunque, perché individui pronti a scagliarsi contro l’omofobia sono i primi a giustificare le persecuzioni ai danni degli omosessuali nei paesi dell’Islam radicale.

Ecco, dunque, perché individui pronti ad inveire contro l’esposizione di un crocifisso nel gabbiotto della portineria di un ufficio pubblico, sono poi pronti a giustificare l’islamizzazione di società laiche (casi iraniano ed afghano).

Al di là di ogni scontata censura e condanna dell’oppressione clericale e reazionaria in nome della fede, gioverà ricordare come le teocrazie e le ierocrazie islamiche non abbiano comunque mai espulso il capitalismo dal loro sistema economico e gestionale (mantenendo anzi, in alcuni casi, un sistema fortemente liberista) o le logiche di tipo imperialistico e militarista dalle loro scelte in politica estera (si vedano le guerre di aggressione decise in più di un’occasione dalle loro leadership).

La sinistra più ortodossa muove e muoverà quindi le proprie scelte da una percezione distorta e pregiudiziale della geopolitca, dell’Europa, degli USA e degli stessi paesi della Mezzaluna

Potenza e fragilità di una menzogna-Jesse Owens: l’ “incubo nero” di Roosevelt e non di Hitler.

Come segnalato in un precedente intervento, sono necessarie tre (3) caratteristiche, fondamentali e sinergiche, affinché un concetto si sviluppi, prenda forza e si imponga tra le masse: l’ “affermazione”, la “ripetizione” ed il “prestigio”.

1. Affermazione: la fase in cui il concetto vede la luce, il suo atomo primo.

2. Ripetizione: il concetto viene ripreso e ripetuto.

3. Prestigio: si tratta della fase più importante. Se, infatti, tra i diffusori del concetto ci sono elementi che godano di prestigio pubblico e/o lo stesso concetto si richiama ad elementi ed idee portatori di prestigio, la sua diffusione sarà più semplice, rapida ed efficace.

La somma di questi tre fattori porterà al “contagio”; il concetto diventa massivo e si impone trovando accettazione ed accoglienza.

La memorialistica e la storiografia hanno consegnato al lettore ed alla pubblica opinione l’immagine di Hitler che rifiuta di stringere la mano al leggendario runner afro-americano James Cleveland “Jesse” Owens , medagliato ali Giochi Olimpici berlinesi del 1936, volendo quindi rimarcare, mediante un frame ad elevatissimo impatto emotivo ed immaginifico, il razzismo del dittatore tedesco.

Si tratta, ad ogni modo, di una falsificazione storica, “debunkizzata” dallo stesso Owen, nella sua autobiografia:

“Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto. E ancora: “Hitler non mi snobbò affatto, fu piuttosto Franklin Delano Roosevelt che evitò di incontrami. Il presidente non mi inviò nemmeno un telegramma”.

Simili manomissioni risulteranno, in ultima analisi, pericolose per la stessa causa che il propagandista vuole sostenere e rilanciare (in questo caso, l’antirazzismo), danneggiandone la credibilità e offrendo punti di entrata al propagandismo di senso opposto.

Gerusalemme o Tel Aviv?Le ragioni di un “equivoco”

Sebbene la capitale “storica” dello Stato di Israele sia Gerusalemme (fondata dal popolo ebraico tra il 2400 e il 2250 a.c ), i media indicano in prevalenza Tel Aviv come riferimento del Paese.

Si tratta di una scelta comprensibilmente sgradita a quella fetta di pubblica opinione vicina ad Israele, che tuttavia trova una spiegazione di tipo politico, diplomatico e “pratico” nel fatto che la città sia oggetto di contesa con l’elemento palestinese e (anche) da esso rivendicata come capitale.

La comunità internazionale, inoltre, non riconosce la presenza israeliana nel settore Est di Gerusalemme (a maggioranza araba) non riconoscendo, di conseguenza, il suo status di capitale del Paese.

Per questo, e per l’ubicazione della stragrande maggioranza delle ambasciate straniere nel suo territorio, Tel Aviv (letteralmente “collina della primavera”) viene citata come massimo centro israeliano. Nda: il settore Est di Gerusalemme venne occupato dal Tzahal con la Guerra dei Sei Giorni, determinata dal blocco egiziano del porto israeliano di Eilat, sul Mar Rosso.