Appunti di storia – Quando i populisti volevano l’Europa e la moneta unica

( Di CatReporter79)

Nel 1946 Guglielmo Giannini diede vita all’ “Europeo Qualunque”, un giornale del “torchietto” che si andava ad affiancare ai precedenti “L’Uomo Qualunque” e “Il Buonsenso”. “L’ Europeo Qualunque” illustrava e diffondeva i principi europeisti del commediografo napoletano, convinto sostenitore della necessità di superare l’idea di stato nazionale, “troppo debole per difendersi, troppo ristretto per vivere da solo, troppo povero per essere indipendente”* nonché alla base delle guerre che avevano dilaniato l’Europa nel XX secolo.

Al suo posto, Giannini e i qualunquisti lanciavano il progetto di una casa comune europea su base federale e sul modello statunitense, gli Stati Uniti d’Europa, dotato di “una sola moneta, un solo esercito, una sola polizia, un solo Governo centrale che si occupi delle questioni generali del continente”** e unito dalla amalgama delle radici cristiane (“l’unico elemento morale previsto””***) secondo un percorso storico che dall’Impero Romano si snodava tra Carlo Magno, Carlo V e Napoleone Buonaparte.

Questo spazio europeo, “per definizione il mondo della pura razza bianca, senza paturnie di ariani e di semiti”****, era peraltro già stato immaginato ne “La Folla”, il manifesto politico in cui Giannini teorizzava un’internazionale degli “uomini qualunque” vessati ad ogni latitudine e in egual misura dagli UPP, gli “uomini politici professionali”.

in quegli anni, delegazioni dell’UQ parteciparono a tutte le iniziative europeiste all’estero. Dalle riunioni dell’Unione parlamentare europea a Gstaad nel 1947 al congresso dell’Unione Federalisti Europei ad Amsterdam.

Mentre oggi l’antipolitica si basa su un impianto anti-europeista, sovranista e nazionalista, è interessante notare come all’epoca si attestasse su posizioni europeiste, anticipando sia la CEE-UE che l’Euro. L’idea di una casa comune europea era del resto presente anche nelle destre radicali italiane (ad esempio il MSI), mentre i conservatori inglesi furono tra i massimi sostenitori dell’ingresso e della permanenza di Londra nella CEE

*”L’Italia non è colpevole della guerra”, articolo su “L’Uomo Qualunque” pubblicato il 6 agosto 1947

**Articolo sulla rubrica “Le Vespe” nell’ UQ del 23 marzo 1945

***”La nazione qualunque”, G. Parlato

****”Rinascita del mondo europeo”, articolo pubblicato su “L’Europeo Qualunque” il 31 marzo 1947

Pubblicità

Territori Occupati: l’errore del bollino e il gioco a somma zero a vantaggio degli Arabi

Made-in-IsraelSe le decisione europea di “bollare” le merci israeliane provenienti dai territori occupati del Golan e della Cisgiordania (sotto amministrazione di Tel Aviv dopo la guerre di aggressione ai suoi danni del 1967) risponde all’esigenza, senza dubbio lodevole, di creare uno strumento di pressione per il ritorno di quelle zone a Damasco e a Gerusalemme Est, la messa in pratica del provvedimento nelle modalità con le quali è stato concepito avrà, tuttavia, effetti nefasti sull’intero processo di pacificazione del MO.

Mancando un’iniziativa parallela e concomitante volta a indurre i Paesi arabi e le massime autorità palestinesi a riconoscere lo Stato di Israele, il risultato sarà infatti solo e soltanto quello di irrobustire il già ben vivo e vivido pregiudizio anti-israeliano ed antisemita, suggerendo l’idea di un ennesimo, iniquo e d insensato, boicottaggio.

L’indolenza occidentale dinanzi alla riottosità arabo-islamica ad accettare la Repubblica di Davide è, a partire dal XIX secolo, l’ostacolo maggiore ai processi di pace nell’area.

Elezioni polacche: perché l’indignazione è il vero rischio per la UE

poloniaL’affermazione della destra nazionalista di PiS in Polonia non potrà né dovrà essere liquidata con la sterile e tracotante indignazione di chi fa fatica ad accogliere e comprendere un responso che va al di là delle sue traiettorie ideologiche ma dovrà essere analizzata a partire dal senso critico verso quell’istituzione che è oggi al centro della rabbia del conservatorismo populista: l’Europa.

Il dato che proprio le nazioni dell’ex blocco sovietico, un tempo percorse da una vera e propria isteria europeista, stiano a poco a poco prendendo le distanze da Bruxelles (paradigmatico, il caso ungherese), è infatti, un campanello d’allarme, il sintomo di un malessere verso un consorzio percepito oggi più che mai come ostile e lontano da quello spirito collegiale e inclusivo che fu alla base della sua ideazione.

L’Europa dei direttòri a tre (Francia, Germania e Italia) o, più frequentemente, a due (Francia e Germania), dei diktat, degli avvertimenti al limite dalla minaccia e dell’erosione delle sovranità nazionali oltre la soglia dell’accettabile, non é e non sarà infatti in grado di vincere la sua sfida con la storia, con il buonsenso e, in ultimo, con le urne.

Un “turning point” è dunque d’obbligo, se non si vorrà riportare le lancette del tempo al 1957 o, peggio ancora, al 1914/1915.

L’errore degli Stati Uniti d’Europa e la lezione del 1914

Crisieuropa_1326895707Il trauma scaturito due guerre mondiali (in special modo dalla I) e il tentativo di opporre una barriera al modello duopolistico costituito dagli USA e dai BRICS sta spingendo sempre di più l’Europa di Strasburgo e Bruxelles ad un modello federativo-confederativo che vedrà la polverizzazione degli antichi stati nazionali.

Un simile disegno non solo si staglia come una negazione dei progetti dei padri fondatori della casa comune continentale ma rischierà di dar vita, de facto, ad una sorta di nuovo Impero Asburgico riformato in chiave repubblicana e con un centro di comando collocato a Berlino e non più a Vienna; uno scenario dall’elevatissimo potenziale distruttivo, dunque, perché mortificante le identità locali e che, se attuato, rilancerà e rivitalizzerà proprio quelle incognite che la sua ideazione ambiva ad allontanare.

Grecia. La necessità delle riforme e il dilemma referendum.

Euro-Europa-300x288I problemi che attanagliano la Grecia vanno al di là dei numeri del suo debito ma riposano nella stessa struttura economica del Paese e nella sua cultura sociale più diffusa e profonda.

La mole di dipendenti pubblici, la massiccia presenza dello Stato nei maggiori apparati produttivi e le enormi sacche di spreco e privilegio a vantaggio (anche) del restante segmento privato, fanno di Atene un paradosso unico nel suo genere, quello di uno Stato privo di una reale economia di mercato tuttavia inserito nella zona Euro e nei circuiti del capitalismo mondiale e continentale.

Benché discusse e discutibili, nella forma come nella sostanza, le riforme sono dunque necessarie come unica terapia d’urto per far uscire il Paese dall’eterno empasse nel quale è avvoltolato; senza di esse, infatti, nessuna ristrutturazione del debito (peraltro giù attuata) e nessuna concessione risulterebbero decisive, sul lungo periodo, lasciando nuovamente esposti i creditori.

Perchè il referendum?
Si sta discutendo sulla motivazione che abbia spinto il giovane ledaer di Syriza a indire un referendum (del costo di 60 milioni) contro un piano da 8 miliardi per accettarne, una settimana dopo, uno ben più severo, di 12, “tradendo” in questo modo il mandato popolare e disperdendo il capitale di fiducia e credibilità conquistato dopo l’affermazione dell’ OXI. E’ verosimile che Tsipras e il suo ex ministro delle finanze abbiano sopravvalutato il potere contrattuale ( e di ricatto) di Atene confidando che, timorosi di un effetto domino o di un apparentamento greco con Mosca e Pechino, Bruxelles e Francoforte avrebbero accettato qualsiasi condizione per scongiurare il Grexit.

Constatata la determinazione della maggior parte dei paesi della moneta unica a fare a meno di Atene (che contribuisce al budget europeo per un modesto 2%), la governance ellenica si è forse spaventata, accettando così , “obtorto collo”, le proposte degli interlocutori per evitare la catastrofe.

Siamo invasi e l’Europa se ne frega? Non è proprio così

prof2prof1prof3Secondo una ricerca demoscopica britannica, gli italiani si collocano ai vertici dell’ “Index of Ignorance” (Indice di Ignoranza), uno studio sulle false percezioni in merito a varie e differenti tematiche, tra le quali l’immigrazione e la presenza islamica nei vari paesi in esame.

Più nel dettaglio, l’italiano ritiene che il 30% della popolazione sia composta da immigrati (in realtà è il 7%) e che il 20% di questi siano musulmani (sono circa il 4%).

Tale approccio disfunzionale si mostra anche nell’analisi del problema sbarchi; se la maggior parte degli italiani è infatti convinta di sopportare il peso più elevato degli esodi dall’Africa, questa “misperception ” è smentita, di nuovo, dall’elemento statistico e documentale. In Europa il primo Paese per numero di rifugiati è infatti la Germania (200.000), poi Francia (238.000), Regno Unito (126.000) e Svezia (114.000). In Italia i rifugiati accolti sono 76.000, circa uno ogni 1000 abitanti.

Ancora, i primi Paesi al mondo per numero di rifugiati sono i Paesi meno sviluppati, collocati nelle zone più “calde” del pianeta: Pakistan (1,6 milioni), Libano (1,1 milioni), Iran (982.000), Turchia (824.000) e Giordania 736.000). Seguono i Paesi della fascia africana: Etiopia (587.000), Kenya (537.000), Ciad (454.000) e Uganda (358.000).

L’Europa se ne lava le mani?
Si tratta di un altro luogo comune, tanto ingannevole ed infondato quanto diffuso e pericoloso. In base agli accordi di Dublino (siglati, per l’Italia, dal governo Berlusconi III), spetta infatti ai Paesi di prima accoglienza la gestione degli stranieri, così da responsabilizzare ogni singolo Stato sul management dei flussi e rafforzare la sicurezza obbligando alle identificazioni. Sebbene l’approccio europeo sia senza tema di smentita lacunoso e dunque migliorabile, la liquidazione della condotta dei massimi apparati continentali come prova di inefficienza, egoismo nazionalistico ed incapacità sarà pertanto da rigettare.

False percezioni: perché?
Uno dei decani del giornalismo statunitense, nonché celebre e celebrato “muckracker”, Lincoln Steffens, faceva notare come avrebbe potuto creare un’emergenza sociale, una psicosi collettiva, partendo dai normali fatti di cronaca che avvenivano nel quotidiano, amplificandoli attraverso il mezzo mediatico e la sua retorica. Questo perché il cronista è il “medium” tra le masse e ciò che succede e per questo le masse sviluppano nei suoi confronti un rapporto di tipo fideistico. Da tale assunto di base si comprende la delicatezza del ruolo di chi fa informazione; una notizia manomessa, alterata o , peggio ancora, falsa, sporca la percezione che il cittadino ha di sé stesso, del collettivo e di chi lo governa, orientandolo di conseguenza. Il crisismo demolitivo e l’allarmismo che sta delineando il lavoro della stampa nazionale si muove secondo questa nefasta traiettoria. I motivi sono: il dettato politico (quasi tutte le testate hanno una proprietà partitica) ed il bisogno di fare “cassetta”, bisogno che soltanto le notizie ad altissimo impatto emotivo possono garantire, secondo il principio breueriano-freudianio della catarsi (il lettore scarica ed appaga i propri impulsi più violenti nell’acquisizione di una notizia di importante urto adrenalinico ). Si viene meno, però, ai dettami dell’etica deontologica (mirabilmente illustrati e condensati nello “Statement of Principles” del 1975 ) nuocendo alla società, corrodendone le basi e, quel che è peggio, la fiducia, ammanettandola ad una cultura del disfattismo che mostra i contorni del vicolo cieco.

G7: Barack Obama e la “tigre di carta” russa. L’inconsistenza della propaganda muscolare: perché Vladimir Putin sta distruggendo il suo Paese.

obama-putin-better-1024x689“Putin scelga tra Urss e bene della Russia”. Così Barack Obama al G7 di Krun, sulla condotta internazionale del Kremlino.

Un accostamento lucido e puntuale, quello tracciato da Obama tra la Russia odierna e l’URSS. Pur senza avere nemmeno lontanamente la potenza di cui disponeva prima del 1992, Mosca condivide infatti con il passato sovietico la fisionomia di “colosso d’argilla”, forte in apparenza grazie al suo “hard power” ma intrinsecamente debole e, dunque, destinato all’implosione proprio come avvenne dopo gli anni del congelamento brezneviano.

Nonostante la popolarità acquisita sia sul fronte interno che su quello esterno in ragione della scelta muscolare del suo presidente ( e qui sarebbe utile tornare alle teorie leboniane), la Russia sta soffrendo in modo decisivo per le sanzioni imposte dall’Occidente; per un’economia ancora in via di sviluppo, poco diversificata (il 67 % delle esportazioni russe sono in idrocarburi), scarsamente liberalizzata ed arretrata da un punto di vista tecnologico, i rapporti di buon vicinato sono infatti fondamentali per attirare investimenti stranieri, creare fiducia sui mercati e , nel caso russo, ricevere quella tecnologia occidentale che tanto serve agli apparati produttivi del Paese.

Il crollo del rublo (ai minimi storici sul dollaro dal crack del 1998), l’aumento dell’inflazione, il calo del PIL (per la prima volta dal 2000 dietro quello dell’Eurozona), la fuga di capitali stranieri (70-80 miliardi di dollari ) e la massiccia emigrazione giovanile sono solo alcune delle conseguenze che la Federazione sta pagando per la miopia strategico-politica del suo capo (aumentare il consenso interno) e per la sua anacronistica velleità proiettiva in chiave sciovinistica e contenitiva.

Proseguendo su questa strada, l’ex ufficiale del KGB dissiperà presto i risultati ottenuti negli anni 2000, condannando l’ Orso ad uno scenario, umiliante e catastrofico, speculare a quello dell’era yeltsiniana.

Russia-Occidente: perché Putin sembra più forte e perché non lo è

obama-putin-better-1024x689La mancata risposta americana e occidentale alle azioni sovietiche in Ungheria (1956), Cecoslovacchia (1968) e Afghanistan (1979) ebbe tra le sue conseguenze più evidenti la percezione, a livello mondiale, di una debolezza di fondo delle democrazie e di una superiorità del blocco socialista.

Si trattava, ad ogni modo, di un grossolano errore di valutazione (commesso anche da numerosi ed autorevoli analisi), che non teneva conto di come, per l’Occidente, quelle aree non rappresentassero un elemento chiave e vitale tanto da rischiare un confronto armato con la superpotenza sovietica (Ungheria e Cecoslovacchia si trovavano inoltre nella porzione “assegnata” da Yalta all’URSS).

Al contrario, quando gli USA si sentirono minacciati in modo diretto in occasione della crisi dei missili di Cuba del 1962, il loro intervento si mostrò rapido, risoluto ed inesorabile, e fu Mosca a dover retrocedere, intimorita. Nella sfida nello scacchiere caraibico, tanto lontano dalla zona d’influenza del Kremlino, furono infatti i sovietici a non considerare vitale la posta in gioco, rispetto al rischio di una guerra termonucleare con Washington e la NATO.

Allo stesso modo, l’idea di una maggior risolutezza russo-putiniana nel braccio di ferro estero riposa oggi sull’identica “misperception” ; l’assenza di una replica all’interventismo russo in Ucraina e nel Caucaso che non vada oltre le (pur efficacissime) sanzioni non va ricondotta ad una scarsa risolutezza occidentale ma alla marginalità, per l’Occidente, degli interessi in campo. A questo si dovrà aggiungere il fatto non vi sia mai stato un impegno militare diretto (se non, in parte, in Georgia) delle truppe russe, ma soltanto un appoggio di tipo esterno e indiretto.

Un pericolo concerto, tuttavia, è che Mosca finisca con il credere, come fece ai tempi dell’empasse cubana*, in una mancanza di polso degli USA e dei suoi alleati, spingendosi fino ad un “point break” dalle conseguenze impreviste ed imprevedibili, innanzitutto per la Russia.

Il New Deal internazionale e l’importanza di ONU, NATO e UE Perché la “politica di potenza” è una seducente catastrofe

Nelle fasi conclusive della Guerra Fredda, molti analisti* si domandarono se la fine dell’equilibrio bipolare che aveva contraddistinto la politica mondiale per cinquant’anni non avrebbe riprodotto uno scenario simile se non identico a quello precedente il 1945, ovvero con il ritorno all’unilateralismo ed alla “raison d’etat” come bussola delle cancellerie più importanti.

La preoccupazione degli osservatori era quella di una reintroduzione delle “shifting alliances”, instabili e pericolose, in sostituzione di quella “ragion di blocco” basata sul solidarismo d’emergenza che aveva assicurato la pace su larga scala a partire dalla sconfitta dell’Asse. Il rischio non si concretizzò, perché l’ONU seppe dimostrare tutta la sua tenuta, sebbene tra non poche storture ed ambiguità, realizzando il sogno, prima wilsoniano e poi rooseveltiano (“international new deal”), di una concertazione paritetica che fosse in grado di allontanare lo spettro di una deflagrazione tra le grandi nazioni (complice, anche la deterrenza nucleare e il principio della “mutua distruzione assicurata”).

Allo stesso modo, l’UE rappresentò e rappresenta il primo esperimento nella storia di partnership organizzata su base stabile, paritetica e collegiale tra attori una volta e per secoli in contrapposizione violenta, sul piano militare come su quelli strategico ed economico. Stesso discorso, sebbene con alcune differenze di fondo, per la NATO, che nel suo “strategic concept” come nel suo “fonding act” illustra la sua fisionomia di garante del diritto internazionale, braccio ed espressione di quell’ “international policy power” voluto da F.D Roosevelt ma mai realizzato pienamente dalle Nazioni Unite (all’ONU mancano, in buona sostanza, quei “denti” di cui parlava Hull**).

Se ne deduce dunque come la fine di questi importanti e consolidati nuclei di ordine democratico avrebbe conseguenze devastanti ed imprevedibili, come l’esposizione dei paesi minori alle mire egemoniche di quelli maggiori e il ritorno alla politica di potenza per le “middle” e le “regional power”, trovatesi senza copertura e quindi costrette ad un aumento delle spese militari e ad una corsa all’opzione atomica, con una pericolosa e diffusa escalation verso la proliferazione nucleare. Alla linea d’indirizzo collegiale interstatuale si sostituirebbe un nuovo ordine basato sull’unilateralismo e la divisione, dove i paesi maggiori vedrebbero una crescita irrazionale del loro potere e del loro margine di manovra consegnando gli altri alla vulnerabilità, all’instabilità e al declino economico (tra le vittime di questo stato di cose, i paesi europei, non più in grado di rivaleggiare con i nuovi protagonisti della globalizzazione).

*Di notevole interesse i contributi di John Mearsheimer (“Back to the Future”) e Gregory Treverton (“Finding an analogy for tomorrow”)

**Cordell Hull (Olympus, 2 ottobre 1871 – Bethesda, 23 luglio 1955), 47° Segretario di Stato americano, Premio Nobel per la pace nel 1945. Tra i padri delle Nazioni Unite.

Il prevedibile semi-flop di Minsk.

ucraina minsk dombass“Accordo non risolutivo”.

Così Federica Mogherini, rappresentante degli Esteri UE, ha commentato il cessate il fuoco stabilito a Minsk. Intanto, nella notte, una cinquantina di carri armati russi avrebbero oltrepassato la frontiera ucraina.

La scarsa concretezza di quanto ottenuto nel vertice era eventualità prevista e prevedibile; potenze minori, Parigi e Berlino non hanno, infatti, la forza negoziale per concedere assicurazioni definite e sul lungo periodo, né possono contare su uno status paritetico nel confronto con Mosca (Berlino non ha nemmeno un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU) .

L’unico risultato tangibile della due giorni potrebbe invece essere l’indebolimento dell’asse occidentale, con l’esclusione degli alleati più importanti ( e di Bruxelles) dall’incontro.

Una decisione strategicamente immatura, dunque, quella delle due cancellerie, forse più attente alle esigenze di un sorpassato autoreferenzialismo sciovinista che non alla risoluzione della crisi.