Da Breznev a Putin, dall’Afghanistan alla Siria: il falso mito della “crociata” contro l’Islam radicale

breznev putin

La storiografia non è ancora oggi in grado di esprimersi in modo concorde ed univoco sulle ragioni e le cause che indussero l’Unione Sovietica a ideare ed approvare l’invasione dell’Afghanistan, nel dicembre del 1979.

Tra le tesi in campo:

-mascherare l’immobilismo e le difficoltà dell’interno con un dinamismo esterno

-contenere un possibile contagio dell’islamismo alle repubbliche asiatiche dell’URSS, dopo il golpe khomeinista

-estendere il proprio dominio agli Stretti di Hormuz, nell’ambito della cosiddetta “strategia a tenaglia” (mirante a chiudere gli sbocchi economici e commerciali occidentali dal Mar Rosso al Golfo Persico)

-scongiurare il pericolo di un’affermazione dell’influenza sino-americana nell’area dopo la normalizzazione dei rapporti tra Pechino e Washington.

Quello che, tuttavia, è da escludere e viene escluso in modo unanime e categorico dalla pubblicistica scientifica, è la vocazione internazionalista e “filantropica” della campagna afghana; l’Armata Rossa non aveva, cioè, superato il fiume Amudarja per proteggere le conquiste laiche di un popolo “fratello” dall’insidia della radicalizzazione islamica, né per difendere ed aumentarne il benessere materiale costruendo infrastrutture (come propagandato dal Kremlino), bensì, come abbiamo visto, per motivazioni altre e differenti, legate al precipuo interesse economico-strategico di Mosca

Allora, però, una parte consistente della pubblica opinione occidentale approvò e sostenne l’iniziativa militare sovietica, credendo o volendo credere che questa fosse ispirata realmente al contrasto della minaccia islamico-radicale nel Paese (una lettura che resiste tutt’oggi, specialmente a sinistra) e al compimento del “dovere internazionalista” del PCUS.

Oggi come 30 anni fa, anche il nuovo dinamismo russo in MO trova un’accoglienza favorevole in alcuni settori del mondo democratico, perché, oggi come 30 anni fa, il registro comunicativo e propagandistico del Kremlino poggia sul tema del “nemico comune”, laddove il nemico comune è e resta il fanatismo islamico e la più generica “congiura imperialista”, nonostante le finalità di Putin siano, come quelle Breznev, indirizzate altrove e nell’interesse del proprio Paese (la protezione di Assad, alleato e testa di ponte della Russia).

E’ interessante notare come Alberto Ronchey avesse preconizzato tutte le insidie della guerra afghana per l’URSS, in un momento in cui la maggior parte degli analisti vedeva invece nell’azzardo brezneviano la dimostrazione plastica di una superiorità sovietica sulla scena geopolitica.

Scriveva infatti Ronchey nel 1980:

“E se la guerra dell’Afghanistan, con sorpresa universale, non fosse che il principio della fine dell’ultimo impero? [..]. E’ possibile che le armate sovietiche, autorizzate a usare senza testimoni mezzi non limitati, giungano a soverchiare le resistenza afghane sono raccolti 800 mila profughi. Ma è anche possibile, nonostante tutto, che la guerra dell’Afghanistan sia destinata a cronicizzarsi. Un ‘Vietnam russo’? [..]. Ma i comandi dell’esercito di occupazione supponevano che sarebbe stata un’impresa rapida, come gli interventi in Ungheria e Cecoslovacchia. Eppure, la guerra continua, presso le soglie della Cina. Secondo il rapporto annuale dell’ISS di Londra, lo Strategic Survey del 1980, per vincere la guerriglia l’URSS dovrebbe impiegare in Afghanistan da 250 mila a 400 mila uomini. I guerriglieri afghani , come i bonzi vietnamiti e i vietcong, richiamano alla memoria il ‘desiderio furioso di morire’ che colse i Lici quando si urtarono con l’armata di Bruto. E simili eventi, a loro volta, richiamavano fatti già accaduti durante la conquista di Alessandro”.

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La geopolitica russa e la sindrome di Kabul

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“Un tempo mi piacevano le parate sulla Piazza Rossa, quando sfilavano i mezzi e gli armamenti. Adesso so che non ci si deve entusiasmare per cose del genere e il mio unico desiderio sarebbe che tutti questi carri armati, blindati e fucili mitragliatori ritornassero quanto prima nei loro depositi e sotto i loro teloni. Sarebbe anche meglio che si facessero sfilare sulla Piazza Rossa tutti i portatori di protesi dell’Afghanistan. Quelli come me, insomma, che hanno avuto entrambe le gambe amputate sopra il ginocchio”

Testimonianza di soldato addetto ai mortai, volontario in Afghanistan con l’Armata Rossa (“Ragazzi di zinco”, Svjatlana Aleksievič)

E’ ancora forte, nei paesi dello spazio ex sovietico e soprattutto in Russia, il ricordo, traumatico, della fallimentare campagna afghana (1979-1989), un insanguinato pantano che costò all’Armata Rossa decine di migliaia tra morti, feriti e mutilati, accelerando il processo di sfaldamento del blocco socialista. Un elemento, questo, che potrebbe aver contribuito alla decisione russa di interrompere le operazioni militari in Siria e che rende sicuramente improbabile qualsiasi utilizzo massiccio e su larga scala dell’ “hard power” (in ogni caso troppo oneroso) da parte del Kremlino, al di là della retorica muscolare consegnataci dai suoi “agit prop” e da quelli al servizio della sua rete di influenza estera.

Grillo: “No alle vostre guerre”. A meno che non le facciano i russi.

grilloDopo aver appoggiato i bombardamenti russi contro l’ISIS in Siria (anche se ad essere colpito dai raid putiniani è forse stato l’FSA), Grillo attacca la decisione del governo italiano di inviare aerei contro i miliziani del Califfato.

Questa schizofrenia interpretativa della geopolitica dimostra come per il leader genovese la battaglia contro Renzi sia prioritaria rispetto agli interessi del mondo libero, alla lotta al terrorismo ed alla coerenza etica.

Siria: l’escalatio che non conviene a nessuno (tanto meno alla Russia)

Un’escalation del conflitto siriano non risulterebbe utile a nessuno degli Attori coinvolti e meno che mai alla Russia, sideralmente distante dalla potenza militare-nucleare occidentale, ed alla Cina, nazione da sempre isolazionista ed oggi impegnata esclusivamente nella sua progressione economica. Qualsiasi allarme sul rischio di una III Guerra Mondiale avente come miccia le sorti di Bashar al-Assad dovrà quindi essere archiviato come banalità sensazionalistica e critica dell’improvvisazione.

Orban, Putin e il dilemma della sinistra antioccidentale.

orban putinViktor Orban fa parte, insieme ad altri leader europei e non europei, di quella “collana di perle”* euroasiatica che costituisce, ad oggi, la base della forza proiettiva della Russia putiniana.

Un dato, questo, che dovrebbe offrire più di uno spunto di riflessione a quel settore della sinistra italiana che individua nel leader del Kremlino un modello ed una possibile alternativa agli indirizzi atlantici.

*Il termine “Collana di Perle” (String Of Pearls), coniato nel 2005 dal Dipartimento della Difesa statunitense, identifica in origine la strategia marittima con cui Pechino cerca di evitare il cosiddetto “Dilemma di Malacca”, ovvero la preclusione delle rotte oceaniche. Le perle della collana sono entità statuali alleate ed amiche della RPC e sue basi di appoggio negli oceani.

Perché Obama ha paura di fare il Bush.Che cosa rischia l’Occidente

L’era Bush (2001 – 2009) ha determinato una lacerazione dell’immagine pubblica degli Stati Uniti, facendo scivolare la popolarità e il prestigio internazionali della prima potenza mondiale ai minimi storici, dal dopo Nixon ad oggi.

Questo fattore, unito all’opinione, diffusa e trasversale anche sul fronte interno, di aver sbagliato completamente la politica estera sul piano economico, strategico ed etico, sta quindi condizionando, vincolando e limitando, in modo importante e decisivo, le scelte di Washington negli scacchieri nord-africano e mediorientale.

In buona sostanza, la paura di “emulare” il suo predecessore (sul quale manca ancora un giudizio sufficientemente equilibrato) e di impantanarsi in un nuovo Vietnam, consiglia ed “impone” all’inquilino del numero 1600 di Pennsylvania Avenue una strategia poco assertiva nei confronti delle derive islamiste che si stanno affacciando nel Rimland mediorientale e nei paesi della “primavere arabe”.

Si tratta, ad ogni modo, di un errore grossolano, che rischierà di determinare conseguenze impreviste ed imprevedibili per gli USA e l’Occidente nel suo insieme, esattamente come avvenne nel 1979 con l’allora Persia lasciata scivolare da Jimmy Carter (nonostante gli avvertimenti di Zbigniew Brzezinski, suo Consigliere per la sicurezza nazionale ) nella mani degli ayatollah (l’ingegnere navale di Plains era senza tema di smentita un campione del pensiero liberale, ma poco adatto alle contingenze della “Realpolitik”).

Abbandonare quelle comunità al radicalismo islamico lasciando incompiuta la loro opera di democratizzazione, infatti, significherebbe non soltanto uno sbaglio dal punto di vista morale (consentire, ad esempio, all’ISIS di proseguire la mattanza dei cristiani), ma anche da quello strategico ed economico; i nuovi regimi potrebbero guardare a Russia, Siria, Cina ed Iran come loro partner ed interlocutori, anche per la fornitura ed il trasferimento di gas e petrolio di cui sono ricchissimi, e creare nuovamente una cintura di accerchiamento ai danni di Israele.

Tale scenario impone dunque agli USA l’abbandono della tentazione isolazionista (storicamente radicata in una fetta molto rilevante dell’opinione pubblica e politica) per riappropriarsi della “Dottrina Reagan”, oggi vitale per l’ affermazione e la tutela dei valori e degli interessi occidentali.

Tra gli argomenti maggiormente utilizzati dai teorici della scelta isolazionista, c’è la convinzione dell’impermeabilità dei paesi afro-arabo-islamici alla cultura democratica. Gioverà a questo proposito ricordare il caso del Giappone imperiale, un Paese vincolato e limitato da un sistema di tradizioni molto più antiche di quelle islamiche ed altrettanto incompatibili con la democrazia occidentale (una società fortemente gerarchizzata, la fusione tra l’elemento secolare e quello temprale, un codice etico-religioso, il Bushido, come regolatore della morale e del comportamento, organizzazione feudale, schiavismo, ecc), ma completamente asciugato dalle sue declinazioni più arcaiche e trasformato in una moderna democrazia nel volgere di pochi anni e prima di ogni ricambio generazionale. La caratteristica insulare del Giappone, la mancanza di una qualsiasi esperienza democratica nel suo passato e di ogni commistione con l’elemento occidentale, inoltre, rendevano il Sol Levante molto più isolato e resistente al modello liberale di quanto non siano alcuni paesi arabi, africani e musulmani, al contrario non digiuni di trascorsi democratici e storicamente contigui alla nostra civiltà.

Quei panni di Nando Mericoni mai abbandonati dalla sinistra nazionale.

Non conta più la pena di morte (abolita dall’Italia sabauda due secoli fa) mediante camera a gas, fucilazione, iniezione letale od impiccagione. Non conta più la sanità privatizzata, che non concede le cure antitumorali a coloro i quali non siano in grado di permetterselo economicamente. Non conta più la spaccatura tra un sistema scolastico privato, degno di ogni eccellenza, ed uno pubblico lasciato preda dell’abbandono e del degrado, con i metal detector e i cani antidroga a tenere a bada la disperazione di ragazzi con le scarpe sfondate. Non conta più l’orrido abominio giuridico del “third strike”, che rinchiude un cittadino a vita in una gabbia e senza possibilità di uscire sulla parola, magari per aver rubato una penna, una gomma e poi una matita. Non contano più le stragi in scuole ed uffici e la vendita libera di fucili mitragliatori a minorenni e psicolabili. Non contano più le esecuzioni di minorenni e portatori di handicap. Non contano più i casi di bambini tratti in arresto e ammanettati all’interno dei loro asili per aver fatto un capriccio di troppo. Non contano più il maggior indice mondiale di obesità e la mancanza assoluta di una giurisprudenza che tuteli la salute alimentare dagli interessi delle multinazionali. Non conta più lo scempio degli ecosistemi pepretrato impunemente delle grandi corporations. Non contano più i ghetti, con le minoranze rinchiuse e spogliate di ogni prerogativa civile, il razzismo, il KKK e le migliaia di condannati, senza prove, sulla base di una sola colpa: avere la pelle scura. Non contano più le menzogne per aggredire popoli e paesi, Guantanamo, i reticolati e le muraglie per respingere i migranti, Abu Ghraib e la boccetta delle lenti a contatto portata in sede ONU per provare che qualcuno aveva ciò che non aveva. Non contano più il Napalm, la Cambogia, Granada, il Cile o Lumumba. Non conta più la privacy violata e la stampa asservita. Non conta più il Cermis. Non conta più Chico Foti. Un democratico del quale si sa soltanto che è italo-americano e che ha una moglie afro-americana diventa sindaco di New York e tanto basta, alla sinistra italiana, per edificare un templio di lodi ed agiografie internetico-mediatiche in onore di un nuovo “eroe” e del suo sistema. “Ah! Se solo avessimo uno così in Italia!”; ecco il nuovo-vecchio refrain che torna a violentare il buonsenso, il biglietto da visita di un segmento politico imprigionato in un inguaribile e caciocavallesco provincialismo esterofilo e nei postumi della sciagurata sbornia del protointernazionalismo marxiano. Cronometriamo la durata di questa nuova infatuazione, presto destinata a scontrarsi con la severa realtà, come avvenne con quel Zapatero che cannoneggiava i migranti o con quell’Hollande che voleva brutalizzare la Siria e il Mali.

Nil est dictu facilius

Hollande da un lato concede (lodevolmente) il matrimonio omosessuale, dall’altro sarebbe (stato) disposto a promuovere una guerra imperialista senza il placet delle Nazioni Unite e senza un impianto probatorio convincente e circostanziato a carico del regime di Assad, trasformando in questo modo il più alto organismo internazionale in una novella Società delle Nazioni. Non posso dimenticare quando all’indomani del suo ingresso all’Eliseo fu accolto da un’imbarazzante esaltazione paramitologica, con le sue “gesta” megafonizzate e scolpite nella pietra dell’idolatria più grottescamente bufalesca. La cosa dovrebbe insegnare molto alla sinistra al caviale nazionale, da sempre incline alla fabbricazione di idoli pagani splendenti di rame

Obama e la Siria: quando le difficoltà arrivano da lontano

La Guerra di Secessione americana non rappresentò soltanto un evento di incalcolabile importanza sul piano politico, geopolitico e militare ma segnò anche (contestualmente all’invenzione del telegrafo) la nascita del giornalismo moderno occidentale. Le cause del fenomeno furono, in misura prevalente, tre

; le “Five Ws” (Chi, Che cosa, Come, Dove, Quando e Perché) furono introdotte da allora, “in modo da garantire che la maggior quantità possibile di notizie fosse trasmessa nel caso un filo del telegrafo si rompesse o fosse manomesso dagli indiani, dal maltempo o dai passeri” (Richard Reeves).

; il conflitto dette vita ad un mercato nazionale delle news. La gente, prima di allora interessata più che altro alle notizie di carattere locale, adesso voleva ottenere informazioni sull’andamento della guerra. I giornali, per esempio, iniziarono a pubblicare le liste di caduti e feriti e questo fece nascere un legame molto stretto tra stampa e cittadino.

; la guerra mise in luce la spaccatura tra informazione e potere. I giornali del Nord democratico e liberale non si peritavano di pubblicare notizie invise a Washington, che reagì con la chiusura di numerose redazioni. Nonostante questo, la libertà di informazione non potè essere né contenuta né imbrigliata.

Quest’ultimo punto delinea una chiave di lettura di grande importanza anche per quel che concerne il difficilissimo rapporto tra potere e pubblica opinione (americana ed internazionale) in merito all’affaire siriano. Oggi è infatti la rete ad aver preso il posto che nel quadriennio 1861-65 fu della stampa; la sua diffusione capillare e gli strumenti di interscambio ad essa accessori (social network, blog, canali video, forum , videofonini, tablet, ecc) consentono alle persone un rimpallo diretto, continuo ed inarrestabile, di news e dati, rendendo molto più arduo e complicato, per il “sistema” ed il circuito mediatico ad esso “embedded”, l’opera di filtraggio e persuasione propagandistica portata avanti con successo dall’epoca della Sidle Commission (1983)  ad oggi. A ciò dobbiamo sommare il tracollo, in termini di credibilità (e quindi di libertà di manovra), subito dagli USA e dai loro principali alleati dopo l’esperienza dell’asse Bush-Blair-Sharon. E’ attraverso queste nuove coordinate che possiamo pertanto codificare, leggere e comprendere i mutamenti che stanno avvenendo negli equilibri sociali e psicologici tra cittadino e “stanze dei bottoni”. Ps:Per il Pentagono e i suoi cani da guaria mediatici (Fox, ABC, Times, ecc) sarà difficile far passare una guerra imperialista voluta da Israele, Arabia Saudita e Qatar come l’ennesima operazione salvifico-umanitaria..

Bнимание, Mr.Obama. Beware

Nel 1999, ai tempi dell’iniziativa militare NATO nella ex Jugoslavia (senza autorizzazione ONU ma con un poderoso bombardamento mediatico delle PR “Ruder & Finn” e “Hill & Knowlton”), un contingente di 200 soldati russi decise di occupare l’aeroporto militare di Pristina, a seguito di un malinteso diplomatico con gli occidentali. Il comandante statunitense NATO Wesley Clark e il segretario generale dell’alleanza Javier Solana, ordinarono a quel punto di trasferire di prepotenza le loro truppe nella zona. La missione fu affidata alla futura rockstar britannica James Blunt, all’epoca ufficiale di leva, che però rifiutò la prova di forza con i russi, che nel frattempo avevano spianato carri armati e cannoni sulla pista di atterraggio. Il provvido gesto evitò un confronto termonucleare tra noi e Mosca, la quale, se attaccata a viso aperto e sotto agli occhi del mondo ( e del suo popolo), non avrebbe potuto esimersi da una risposta severa e decisa. Washington ed alleati avevano dato il via ai bombardamenti sulla Serbia perché confidanti nella debolezza di una Russia ancora frastornata dal crollo dell’impero sovietico, dipendente dalle iniezioni finanziarie degli ex rivali e capitanata da un personaggio a loro tradizionalmente vicino e contiguo (almeno dal 1987), ma ciò nonostante, l’imprevisto, l’inaspettato, il caso, avrebbero potuto stravolgere, repentinamente e fatalmente, le cose. Oggi come allora, il pericolo di un terzo conflitto mondiale viene da troppi preso sottogamba e minimizzato; se, infatti, è lapalissiano che l’olocausto termonucleare non rientra nelle convenienze di nessuno, è altresì vero (come l’ “Incidente di Pristina” sta a dimostrare), che frequentemente è l’equivoco a giocare e poter giocare un ruolo capitale e decisivo.