La lezione incompresa dell’Afghanistan, 43 anni dopo

L’obiettivo di Putin è probabilmente chiudere lo sbocco al mare all’Ucraina, per portarla al declino storico (la ritiene uno Stato “artificiale”) o costringerla a trattare da una posizione di assoluta e disperata debolezza.

Anche quando la già fragile Russia (che, lo ricordiamo, è un Paese in via di sviluppo e minato da differenti e molteplici criticità interne) riuscisse nell’intento, ciò le costerebbe uno sforzo immane e prolungato e, non in ultimo, la pressione estenuante di una guerra di resistenza e di costanti controffensive (come peraltro accadrebbe se intendesse fermarsi al Donbass).

Uno scenario del tutto simile a quello afghano (1979-1989) e, come in Afghanistan, Mosca si ritirerà o cambierà linea solo quando si verificherà un cambio al suo vertice, domani come tra dieci anni. Quella sconfitta fu tra le cause principali del crollo dell’Unione Sovietica, il che pone un’ombra pesantissima sul futuro della Federazione Russa*.

*le forze sovietiche presero oltretutto subito Kābul mettendo in atto un cambio di regime, cosa che ai russi non è invece riuscita con l’Ucraina

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La geopolitica russa e la sindrome di Kabul

sovietaf

“Un tempo mi piacevano le parate sulla Piazza Rossa, quando sfilavano i mezzi e gli armamenti. Adesso so che non ci si deve entusiasmare per cose del genere e il mio unico desiderio sarebbe che tutti questi carri armati, blindati e fucili mitragliatori ritornassero quanto prima nei loro depositi e sotto i loro teloni. Sarebbe anche meglio che si facessero sfilare sulla Piazza Rossa tutti i portatori di protesi dell’Afghanistan. Quelli come me, insomma, che hanno avuto entrambe le gambe amputate sopra il ginocchio”

Testimonianza di soldato addetto ai mortai, volontario in Afghanistan con l’Armata Rossa (“Ragazzi di zinco”, Svjatlana Aleksievič)

E’ ancora forte, nei paesi dello spazio ex sovietico e soprattutto in Russia, il ricordo, traumatico, della fallimentare campagna afghana (1979-1989), un insanguinato pantano che costò all’Armata Rossa decine di migliaia tra morti, feriti e mutilati, accelerando il processo di sfaldamento del blocco socialista. Un elemento, questo, che potrebbe aver contribuito alla decisione russa di interrompere le operazioni militari in Siria e che rende sicuramente improbabile qualsiasi utilizzo massiccio e su larga scala dell’ “hard power” (in ogni caso troppo oneroso) da parte del Kremlino, al di là della retorica muscolare consegnataci dai suoi “agit prop” e da quelli al servizio della sua rete di influenza estera.

Attenzione alla parola “terrorista”

L’ elasticità restringente del termine/concetto “terrorismo”/”terrorista” è uno dei bastioni della propaganda politica di guerra e segna allo stesso tempo una tappa assolutamente nuova in questo senso (almeno dal 1917 in poi, quando il Presidente americano Woodrow Wilson gettò le fondamenta della propaganda moderna tramite la costituzione del “Committee on Public Information”). Questo perché tali formule (“terrorismo” e “terrorista”) traggono la loro forza e spinta propulsiva da uno dei cardini dell’impianto propagandistico classico: la semplificazione. Dalle campagne USA-NATO in Iraq e Afghanistan, i due vocaboli hanno assunto una valenza identificativa dell’autoctono che combatte lo straniero (le truppe occidentali) in “casa propria” e, e bene rammentarlo, con mezzi nettamente inferiori, dal punto di vista qualitativo come quantitativo. Ecco che il concetto di “terrorismo” si fa restringente e banalizzante, semplificante. Viceversa, diventa elastico quando la propaganda occidentale o di matrice revisionista fa riferimento agli stessi combattenti quando erano schierati contro le milizie Sovietiche (guerra afghana del 1979-1989) o, ad esempio, quando al centro dell’indagine e della speculazione storica, giornalistica o politica ci sono i soldati di Salò (anch’essi schierati a difesa di un regime dittatoriale contro gli Anglo-Americani, ma in questo caso presentati come soldati regolari e depositari di una dignità ideologica). Il meccanismo è strettamente legato e consequenziale ad alcuni passaggi che il sociologo Ragnedda inquadra all’interno di tre terzine:

A) Ricorso alla paura e identificazione del nemico
1) demonizzazione del nemico
2) Uso da parte del nemico di armi letali e non convenzionali
3) Guerra in risposta al nemico e non come attacco

B) Bontà delle nostre guerre
1) Soccorrere una nazione o un popolo
2) Giusta causa
3) Estendere la democrazia

C) Sostegno alla giusta causa
1) Sostegno dal di fuori: internazionale
2) Sostegno dall’interno. intellettuali ed artisti
3) Sostegno dall’alto: divino

Che cosa sono le teocrazie. Quando Lenin spodesto’ Allah

Con il termine “teocrazia” si intendono quelle comunità (non necessariamente statali o nazionali) prive di una separazione tra la sfera laica e quella religiosa, tra la morale religiosa e quella civile, tra il diritto dello Stato e quello di Dio. La “teocrazia” può essere anche una “ierocrazia” (ἱερός – κρατία), ovvero una forma di governo detenuta o gestita da una classe sacerdotale (dal clero), ma non si tratta di una condicio sine qua non. Le teocrazie islamiche (Arabia Saudita, Afghanistan, Sudan, Pakistan, Yemen, Nigeria, Somalia, Iran e Mauritania) vengono definite tali perché si rifanno alla “Legge di Dio”, ovvero la Shari’a, che ha come fonte ed ispirazione (pur tra diverse interpretazioni erronee e strumentali) il Corano e la Sunna. Ciò che è contro il Corano e l’insegnamento di Maometto, è contro la legge. La Shari’a separa, tra l’altro, in categorie qualitative l’uomo e la donna, il musulmano (“Mūʾmin “) e il non musulmano (“khafir”, infedele) e prevede la pena capitale per uno sterminato ventaglio di “reati” quali omicidio, adulterio, bestemmia contro Allah, apostasia ed omosessualità, senza contare le pene “accessorie” quali frustate, mutilazioni, pubbliche gogne, ecc. La sinistra politicamente corretta, borghese e revisionista (per usare un termine di più agevole comprensione “al caviale”) pone sul bilancino del buonsenso virgole ed aggettivi, in nome del rispetto nei confronti del “diverso”, salvo concedere deroghe ai valori, assoluti ed universali, di democrazia, libertà e rispetto della persona quando essi vengono violati dal e nel circuito islamico radicale. Quando l’URSS decise di rompere nel 1979 con la “Dottrina Breznev” per valicare i confini di uno stato posto al di fuori del perimetro yaltiano (l’Afghanistan), lo fece per scongiurare i rischi previsti dalla cosiddetta “Teoria del domino” (“Domino Theory”); l’illuminato governo filo-sovietico del Partito Democratico Popolare di Nur Mohammad Taraki (che aveva laicizzato la società, imposto il divieto del burka, concesso il diritto di voto alle donne, vietato i matrimoni combinati, contrastato il potere delle tribù) era stato rovesciato (grazie alla CIA) e il pericolo che si paventava agli occhi di Breznev (che comunista era davvero, non come Vendola o Ro-do-tà) era non soltanto quello di abbandonare l’area all’influenza statunitense, ma anche al radicalismo islamico, con un rischio contaminazione per le vicine repubbliche sovietiche di fede musulmana (caso Iran-Persia). Io mi tengo Tovarishch Taraki e lascio agli ultras del panciafichismo borghese il Mullah Omar.

P.s: consiglio a tal proposito le lezioni del Prof. Lenci (Storia dell’Africa e dell’Islam), ordinario di Storia Contemporanea presso l’università di Pisa. E’ stato uno dei miei primi esami e ne sono felice. до свидания.

Il nemico-amico.

La costruzione del mito del “nemico comune” viene generalmente associata alla propaganda di tipo bellico (in tempi recenti, gli USA ne hanno offerto esempi paradigmatici in occasione delle operazioni in Iraq ed Afghanistan), ma si tratta di un errore di lettura, valutazione ed interpretazione decisamente ingenuo e grossolano, seppur comprensibile per i non “addetti ai lavori” (stampa, sociologi, politologi, storici, massmediologi). Tale strategia, infatti, costituisce una delle punte di lancia nell’arsenale di qualsiasi propagandista, sviluppandosi attraverso direttrici-base che possono essere riassunte nella seguente terzina:

; assegnazione di un ruolo. Attraverso la creazione del “nemico comune”, il beneficiario dell’azione propagandistica viene investito di un ruolo, positivo, di barriera ed argine ai mali causati dal nemico. Se suddetto “nemico” verrà presentato con una molteplicità di volti ed aspetti (stampa, avversari politici, analisti, intellettuali, internauti, ecc), allora il risultato sarà ancor più soddisfacente (se tutti ce l’hanno con noi, vuol dire che combattiamo per una causa giusta).

; il fattore “nicchia”. Se il nostro nemico (o i nostri nemici) rappresentano una forza numerosa, l’essere minoranza fa sentire parte di una “élite”, di un circolo esclusivo e ristretto di persone “illuminate”, uniche e sole custodi delle coordinate giuste per risolvere il male collettivo. P.s: altra cosa è la “sindrome da accerchiamento” tipica dei circuiti più estremi della Destra, retaggio e conseguenza del bagaglio eroistico-superomistico di stampo nietzscheano-evoliano alla base della loro esperienza culturale ed ideologica.

; catalizzazione delle energie e del consenso. Se individua un soggetto-bersaglio che metta in pericolo ed in allarme la nostra comunità, (politica, culturale, virtuale, sociale che sia), si ottiene un “collante”, un polo di attrazione per forze ed adesioni che, altrimenti, potrebbero rischiare la frammentazione e la dispersione.

A questo va però aggiunta una distinzione, tra la ricerca del “nemico comune” in tempo di guerra ed in tempo di pace. Se nel primo caso, tale soluzione è a termine, finalizzata e propedeutica alla distruzione dell’avversario che si combatte, in tempo di pace può non avere termine e scadenza, con il rischio di scivolare, alla lunga, nella prevedibilità e nella scontatezza, per poi disinnescarsi.

“misperceptions”

Tra le armi più formidabili in dotazione alla propaganda politico-mediatica, si segnalano le cosiddette “misperceptions”, ovvero “false assunzioni”. Si tratta di notizie non vere o parzialmente non vere che il propagandista diffonde attraverso i mass media, in primis il mezzo televisivo. Durante la Seconda guerra del Golfo, in particolare, fu osservato come la percentuale degli americani convinti dell’esistenza delle armi di distruzione di massa irachene ( armi mai rinvenute) salisse vertiginosamente tra coloro i quali seguivano con frequenza la televisione; il dato arrivava all’80% per gli utenti del canale filo-repubblicano FOX News, mentre scendeva al 47% tra chi sceglieva di informarsi attraverso la carta stampata, disertando il tubo catodico. Questa statistica può consegnarci un postulato di fondamentale importanza: più televisione guardiamo, più ci esponiamo al rischio di incappare nelle “misperceptions” e di venire, di conseguenza, manipolati. In un servizio di RAI News24 andato in onda ieri pomeriggio sull’Afghanistan, il Presidente Karzai veniva schernito per aver sostenuto la tesi secondo cui esisterebbe un accordo tra gli USA e i Talebani allo scopo di generare un clima di terrore nel Pese così da far sembrare indispensabile la presenza militare statunitense. L’accusa potrà non essere fondata e rivelarsi in futuro come tale, ma certamente non appare priva di credibilità; non sarebbe la prima volta, infatti, che Washington decide di allearsi sottobanco con elementi di cui ufficialmente è avversaria se non proprio nemica (con i Talebani lo ha già fatto). Il taglio del servizio, però, andava nel solco della demolizione e dello screditamento “ad abundantiam” delle tesi del presidente afghano, dipinto e presentato sostanzialmente alla stregua di un paranoico visionario. Alle sue argomentazioni, il commentatore rispondeva senza la concessione del benché minimo beneficio del dubbio, totalmente appiattito su posizioni di stampo filo-americano. Il servizio si chiudeva poi con una battuta sarcastica nei confronti del leader di Kabul, battuta che ben poco aveva a che fare con la deontologia giornalistica. E’, questa, informazione? Pensiamoci bene, prima di teorizzare su Iran, Nord Corea, sistema bancario, sicurezza, crisi economica, magistratura e qualsiasi altra tematica “sensibile” o ritenuta tale.