Bush vs Trump: la politica americana e il falso mito della solidarietà di partito

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La decisione della famiglia Bush e del repubblicano Paul Ryan di non appoggiare Donald Trump a novembre, sfata un mito tra i più resistenti e diffusi sulla politica americana, ovvero il “rolly round the flag”, nell’Elefantino e nell’Asinello, dopo le primarie. Come nel 1964 con Barry Goldwater e nel 1980 con Jimmy Carter, infatti, non sempre la fazione sconfitta e i suoi elettori si lasciano alle spalle incomprensioni e divergenze per appoggiare il candidato del loro partito.

Nel caso di Goldwater, repubblicano, fu il timore di un pericoloso deterioramento dei rapporti con l’URSS a spaventare l’elettorato conservatore, mentre la politica carteriana venne giudicata in modo negativo nel suo insieme, sia dagli avversari del Presidente che dai democratici.

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Perché Obama ha paura di fare il Bush.Che cosa rischia l’Occidente

L’era Bush (2001 – 2009) ha determinato una lacerazione dell’immagine pubblica degli Stati Uniti, facendo scivolare la popolarità e il prestigio internazionali della prima potenza mondiale ai minimi storici, dal dopo Nixon ad oggi.

Questo fattore, unito all’opinione, diffusa e trasversale anche sul fronte interno, di aver sbagliato completamente la politica estera sul piano economico, strategico ed etico, sta quindi condizionando, vincolando e limitando, in modo importante e decisivo, le scelte di Washington negli scacchieri nord-africano e mediorientale.

In buona sostanza, la paura di “emulare” il suo predecessore (sul quale manca ancora un giudizio sufficientemente equilibrato) e di impantanarsi in un nuovo Vietnam, consiglia ed “impone” all’inquilino del numero 1600 di Pennsylvania Avenue una strategia poco assertiva nei confronti delle derive islamiste che si stanno affacciando nel Rimland mediorientale e nei paesi della “primavere arabe”.

Si tratta, ad ogni modo, di un errore grossolano, che rischierà di determinare conseguenze impreviste ed imprevedibili per gli USA e l’Occidente nel suo insieme, esattamente come avvenne nel 1979 con l’allora Persia lasciata scivolare da Jimmy Carter (nonostante gli avvertimenti di Zbigniew Brzezinski, suo Consigliere per la sicurezza nazionale ) nella mani degli ayatollah (l’ingegnere navale di Plains era senza tema di smentita un campione del pensiero liberale, ma poco adatto alle contingenze della “Realpolitik”).

Abbandonare quelle comunità al radicalismo islamico lasciando incompiuta la loro opera di democratizzazione, infatti, significherebbe non soltanto uno sbaglio dal punto di vista morale (consentire, ad esempio, all’ISIS di proseguire la mattanza dei cristiani), ma anche da quello strategico ed economico; i nuovi regimi potrebbero guardare a Russia, Siria, Cina ed Iran come loro partner ed interlocutori, anche per la fornitura ed il trasferimento di gas e petrolio di cui sono ricchissimi, e creare nuovamente una cintura di accerchiamento ai danni di Israele.

Tale scenario impone dunque agli USA l’abbandono della tentazione isolazionista (storicamente radicata in una fetta molto rilevante dell’opinione pubblica e politica) per riappropriarsi della “Dottrina Reagan”, oggi vitale per l’ affermazione e la tutela dei valori e degli interessi occidentali.

Tra gli argomenti maggiormente utilizzati dai teorici della scelta isolazionista, c’è la convinzione dell’impermeabilità dei paesi afro-arabo-islamici alla cultura democratica. Gioverà a questo proposito ricordare il caso del Giappone imperiale, un Paese vincolato e limitato da un sistema di tradizioni molto più antiche di quelle islamiche ed altrettanto incompatibili con la democrazia occidentale (una società fortemente gerarchizzata, la fusione tra l’elemento secolare e quello temprale, un codice etico-religioso, il Bushido, come regolatore della morale e del comportamento, organizzazione feudale, schiavismo, ecc), ma completamente asciugato dalle sue declinazioni più arcaiche e trasformato in una moderna democrazia nel volgere di pochi anni e prima di ogni ricambio generazionale. La caratteristica insulare del Giappone, la mancanza di una qualsiasi esperienza democratica nel suo passato e di ogni commistione con l’elemento occidentale, inoltre, rendevano il Sol Levante molto più isolato e resistente al modello liberale di quanto non siano alcuni paesi arabi, africani e musulmani, al contrario non digiuni di trascorsi democratici e storicamente contigui alla nostra civiltà.

Il “popolo stanco” e la rivoluzione. Esegesi di una mitologia.

Il 1989 e il caso romeno.

Il 18 dicembre del 1989, il noto settimanale romeno “ Scanteia Tineretului” pubblicò un articolo alquanto strano ed anomalo, dal titolo: “Qualche consiglio per chi in questi giorni è al mare”. Strano ed anomalo, perché la stagione era quella invernale, e il clima particolarmente rigido della Romania in quella fase dell’anno non era e non è sicuramente tale da consigliare escursioni tra le onde e le spiagge. Si trattava in realtà di un messaggio in codice, diretto a coloro i quali, di lì a pochi giorni, avrebbero posto in atto la “rivoluzione” nel Paese Socialista. Ecco la il testo del trafiletto e la sua decodificazione:

ARTICOLO

-Evitate l’esposizione continua e prolungata al sole. E’ preferibile iniziare con sedute di 10-15 minuti , prima da una parte e poi dall’altra . In questo modo vi assicurerete una bella e uniforme abbronzatura su tutto il corpo

-Non andate troppo al largo e , in caso di pericolo, non urlate. E’ inutile. La possibilità che qualcuno arrivi in vostro aiuto è minima

-Approfittate del frutto benefico dei raggi ultravioletti. Com’è noto, essi sono più efficaci tra le 5.30 e le 7.30. Lo raccomandiamo soprattutto alle persone più deboli.

-Se avete una natura sentimentale e amate i tramonti, le librerie sul lungomare vi offrono un vasto assortimento di cartoline che ritraggono questi spettacoli

-E ancora: se questi consigli vi lasciano perplessi, e siete esitanti, e quindi pensate sia meglio andare in montagna, significa che non amate la bellezza del mare.

DECODIFICAZIONE

-Evitate il contatto prolungato con le forze dell’ordine. All’inizio agite da soli e a brevi riprese di 10-15 minuti, ora in una zona ora nell’altra, per aumentare il panico e la confusione. In questo modo , la riuscita è garantita.

-Non agite troppo in massa. E comunque, in caso di pericolo, non urlate. Siete da soli. Nessuno accorrerà in vostro soccorso.

-Agite preferibilmente tra 5:50 e le 7.30. Le forze dell’ordine sono meno presenti, in queste ore. Si raccomanda di adescare le persone più ingenue, vi sarà più facile coinvolgerle nell’azione contro Ceauşescu.

-Di sera, col buio, spaccate le vetrine dei negozi. Le autorità entreranno nel panico e la gente riprenderà coraggio

-Se avete paura, è meglio che rinunciate, altrimenti mettere in pericolo gli altri, i quali sono invece decisi a mettere in atto azioni di commando in città.

Non si tratta di un singulto astorico e dietrologico; Bush e Gorbačëv avevano infatti deciso la fine del regime di Ceauşescu quello stesso dicembre, durante il loro summit di Malta , e il leader della Perestrojka dispose l’opzione del colpo di stato mascherato da insurrezione popolare. La storiografia e la pubblicistica divulgativa hanno consegnato il “middle must” della rivoluzione messa in atto da un popolo stanco e vessato da quasi un 50ennio di soprusi, ma non è e non fu così. Se è vero che i Romeni maltolleravano il regime, è tuttavia altrettanto vero che non ci fu nessuna rivolta di massa, almeno nella capitale e almeno così come la si è voluta e la si vuole presentare (a tutt’oggi, non è stato possibile risalire ai colpevoli che spararono sulla folla a Bucarest ). Fu invece un “golpe” in piena regola, organizzato meticolosamente, prima ( il vademecum pubblicato da “Scanteia Tineretului” ne è una delle prove) , con la compiacenza degli stessi fedelissimi del dittatore (Stanculescu, Milea, Vlad, Dascalescu ed altri) ed il supporto dei servizi segreti britannici, francesi, statunitensi, italiani e, ovviamente, sovietici (in quel 1989, l’afflusso dei cittadini sovietici in Romania con visto turistico, in realtà agenti del KGB, subì un vertiginosa impennata, arrivando ad una crescita del ben 118% rispetto agli anni precedenti).

Per avere successo ed affermarsi sul lungo periodo, una rivoluzione non può mai prescindere dal consenso del popolo (quantomeno di una sua porzione numericamente solida e significativa) ma non si tratta e non si è mai trattato di un gesto integramente spontaneo, come un certo romanticismo mitologico ed etereo vorrebbe bisbigliare ai pori ricezionali dei meno avveduti. C’è sempre una direzione criptica e criptata, una fascio di leve che agiscono in ottemperanza s schematismi ponderati ben definiti e definibili, non di rado addomesticati verso il tornaconto di qualcuno o di qualcosa.

“Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero” – Oscar Wilde.

Ai tempi della seconda guerra in Iraq nel 2003, un sondaggio dimostrò come l’86% degli statunitensi che credevano alle informazioni (poi rivelatesi distorte e manipolate) sul regime di Saddam Hussein fosse collocato tra coloro i quali erano comunque favorevoli al conflitto e all’amministrazione Bush. C’era quindi un legame tra queste “misperceptions” (nel gergo della comunicazione “false percezioni”) e l’ideologia-convincimento di base dei cittadini che le accoglievano come veritiere. In poche parole, la propaganda mediatica attecchisce più facilmente se i suoi argomenti sono, in qualche modo, collocati e collocabili sulla stessa traiettoria d’intendimento del bersaglio del messaggio.

Da diversi anni circola in rete e su alcune piattaforme mediatiche una presunta “Relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani” datata 1919, nella quale i nostri connazionali sbarcati ad Ellis Island venivano bollati e descritti, tra le altre cose, come di piccola statura e di pelle scura, puzzolenti, dediti all’accattonaggio ed al crimine. Si tratta, però, di un rapporto la cui veridicità non solo non è stata mai provata e dimostrata, sebbene riportata anche da organi come RAINEWS24, ma che viene messa a dura prova da alcuni indizi quali, ad esempio, il linguaggio utilizzato nel rapporto (più simile a quello di un comunicato politico che non ad una relazione governativa) e da alcune discrepanze storiche, come l’utilizzo da parte dei migranti italiani dell’alluminio per costruire le loro abitazioni, materiale in realtà a quel tempo molto costoso e pregiato. E’ e resta comunque innegabile la durezza del trattamento riservato ai nostri connazionali (come alle altre comunità immigrate), per cui nel caso di specie non si potrà parlare di propaganda “nera” (ossia totalmente falsa) ma di propaganda “grigia”, ovvero parzialmente falsa. Scopo di coloro i quali hanno imbastito la (presunta) mistificazione è quello, senza dubbio benefico, di sensibilizzare l’opinione pubblica su una tematica molto delicata attraverso il canale, emotivamente forte, dell’immedesimazione, data la storia recente di disagio economico e sociale che spingeva molti italiani a lasciare la loro terra in cerca di fortuna, e infatti la nota trova larga diffusione ogni volta in cui, purtroppo, si ripetono tragedie come quella lampedusana. E però significativo notare come le strategie della persuasione riescano sempre e comunque a giungere a bersaglio, indipendentemente dal segmento che si desideri cooptare. Non c’è o non sembra dunque esserci differenza tra la vecchina eterodiretta dagli apparati mediatici berlusconiani (e per questo sovente oggetto di scherno ed aristocratico biasimo) e l’intellettuale, apparentemente meglio attrezzato, magari “liberal” e munito di un titolo accademico, che condivide certe informazioni disancorate dal reale senza la tutela del vaglio e della verifica.

Concludo con una piccola digressione storica: è opinione comune sia stato l’affondamento del transatlantico “Lusitania” la molla dell’entrata in guerra degli USA a fianco delle potenze dell’Intesa nel 1917, ma è un dato soltanto parzialmente corrispondente al vero. L’Amministrazione Wilson, infatti, era già riuscita a convincere la recalcitrante opinione pubblica nazionale attraverso l’opera massiva e massiccia del “Committee on Public Information”, un organismo antesignano delle moderne PR guidato dal giornalista George Creel. Creel puntò molto sulla collaborazione con la stampa e sull’azione dei cosiddetti “Four Minute Man” (termine che traeva ispirazione dai famosi “Minuteman”, la milizia che ai tempi della guerra d’indipendenza dagli Inglesi era in grado di intervenire entro 1 minuto). Scopo dei “Four Minute Man”, un corpo di ben 75 mila uomini, era quello di intrattenere i cittadini in luoghi ad alta concentrazione di pubblico come i cinema, i teatri e gli stadi con orazioni patriottiche incisive ma brevi, appunto di 4 minuti. Inoltre, vennero coinvolte le star all’epoca più popolari come Douglas Fairbank e Mary Pickford e i circoli e l’associazionismo, dai clubs femminili ai boy scout, con l’incarico di estendere e diffondere il messaggio interventista e patriottico di casa in casa, di villaggio in villaggio, di città in città. In breve, sugli USA iniziò a soffiare un vento antitedesco che rese possibile non solo l’entrata in guerra ma anche l’accettazione di provvedimenti pesantemente e platealmente illiberali ed anticostituzionali come il “Sedition Act” del 1918, che vietava qualsiasi forma di opposizione al conflitto. Sconvolto da questa torsione collettiva che dimostrava, de facto, l’asservimento dell’opinione pubblica di una democrazia alle opzioni della propaganda, uno dei padri del moderno giornalismo statunitense, Walter Lippman, nel suo “Liberty and News” gettò si semi del cosiddetto “giornalismo scientifico”, elaborando un vademecum che il cronista doveva seguire per sfrondare il suo lavoro dalle seduzioni e dagli inganni della propaganda, in modo da consegnare al lettore una narrazione il più obiettiva e deontologicamente corretta possibile.