..e se poi mi assolvono..? Il caso dei pediatri indagati a Livorno e le colpe di una certa informazione.

Qualche mesa fa mi capitò di occuparmi di un caso di omicidio, e riferendomi al killer scelsi di utilizzare la formula “presunto assassino”, nonostante fosse un reo confesso. Questo perché le indagini erano ancora nelle loro fasi embrionali e, per il nostro ordinamento, si trattava di un presunto innocente.

La Carta dei Doveri del Giornalista non vieta la divulgazione delle generalità dell’indagato (se acquisite in modo lecito e legale), ma obbliga chi fa informazione a presentare la vicenda ricordando la presunzione d’innocenza, senza contaminazioni e manomissioni di alcun genere. In particolare:

“In tutti i casi di indagini o processi, il giornalista deve sempre ricordare che ogni persona accusata di un reato è innocente fino alla condanna definitiva e non deve costruire le notizie in modo da presentare come colpevoli le persone che non siano state giudicate tali in un processo.

Il giornalista non deve pubblicare immagini che presentino intenzionalmente o artificiosamente come colpevoli persone che non siano state giudicate tali in un processo”

Nel caso dei pediatri indagati a Livorno, questo principio è stato disatteso da buona parte del circuito mediatico. Per quanto raccapriccianti siano e possano essere le accuse, la cultura civile non dovrà mai retrocedere dinanzi all’emotività. La democrazia, è bene non scordarlo, rivela la sua forza quando viene messa dura prova

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Te saludi, Padania. Perché non mi mancherai.

Un certo fair play di maniera molto diffuso negli ultimi anni, suggerisce di esternare il proprio disappunto per la chiusura di una testata giornalistica, e questo al di là dei suoi contenuti ed orientamenti. “E’ pur sempre pluralismo”, “è pur sempre informazione”. Queste, le motivazioni.

Si tratta di un cliché che, personalmente e come iscritto all’Albo, respingo con forza; una testata, infatti, costituisce una ricchezza per il collettivo se rispetta le regole della deontologia giornalistica e se svolge un servizio per il lettore, autentico e reale.

La “Padania”, al contrario, si è sempre posta come la cassa di risonanza di un odio anti-meridionale e xenofobo inaccettabile in e per un consorzio democratico e progredito, introducendo nel modo di fare giornalismo elementi ed abitudini che hanno contribuito a dequalificare la professione.

Non mi rattrista, quindi, la fine dell’organo ufficiale della Lega Nord, come non mi avrebbe rattristato la chiusura del “Der Stürmer”.

“La salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che essa riceve” –
Walter Lippmann.

Quando l’ingenuo diventa “debunker”.Chi crede alle “bufale”, chi non ci crede e perché

Ai tempi della Seconda guerra del Golfo (2003), un sondaggio dimostrò come l’86% degli statunitensi che credevano alle informazioni (poi rivelatesi distorte e manipolate) sul regime di Saddam Hussein fosse collocato tra coloro i quali erano comunque favorevoli al conflitto e all’amministrazione Bush. C’era quindi un legame tra queste “misperceptions” (nel gergo della comunicazione “false percezioni”) e l’ideologia-convincimento di base dei cittadini che le accoglievano come veritiere.

Facendo una piccola ricognizione tra i contatti presenti sulle varie piattaforme di “social networking” che gestisco o co-gestisco, ho avuto modo di notare una certa instabilità nel criterio di valutazione delle informazioni che arrivano all’utenza; chi apparentemente si dimostra vulnerabile all’inquinamento del fatto e dell’elemento documentale, palesa ed attiva invece, in altre circostanze, dispositivi di filtraggio e di “debunking ” estremamente perfezionati ed efficaci. Utilizzando come esempio le “bufale” più recenti, come l’ “abolizione” della Storia dell’Arte dalle scuole italiane o , ancora, il presunto regalo di 7,5 miliardi di euro alle banche, esse hanno trovato libero ed immediato accesso ed accoglimento sugli spazi di chi, in modo trasversale (con una certa preponderanza di pentastellati ed elelettori di destra), è ostile all’esecutivo Letta, ma gli stessi condivisori si sono rivelati poi sorprendentemente razionali nell’analisi di altri “midcult“, come quello che vedeva il leader dei Forconi Danilo Calvani nell’occhio del ciclone perché “accusato” di possedere una Jaguar. In tale circostanza, i “calvaniani” (nella mia personale indagine posizionati tra l’estrema destra e il Movimento Cinque Stelle), hanno sottoposto la notizia ad un vero e proprio sezionamento, andando alla ricerca della proprietà dell’automobile, della sua data di immatricolazione, ecc.

Simili studi ed esperienze sembrano avvalorare una tesi comune, nella sociologia della comunicazione e nel giornalismo, che vede i media e la propaganda non come costruttori del consenso ma come semplici emanazioni, megafoni e puntellatori dello stesso. La propaganda mediatica attecchisce quindi più facilmente se i suoi argomenti sono, in qualche modo, sulla stessa traiettoria d’intendimento del bersaglio del messaggio.

Beppe Grillo, Laura Boldrini e il ruolo della provocazione.


Quando il più grande imprenditore televisivo non dispone di una televisione

Strumento orizzontale, libero ed interattivo, il web non ha tuttavia ancora spodestato la televisione dal suo ruolo di “opinion maker” egemone e preferenziale, e quasi certamente non ci riuscirà mai, data l’irruzione di nuovi soggetti come le “i-Tv”, già diffusissime e popolari oltreoceano. Il gap tra web e tv si rende ancora più forte, percepito e percepibile in un Paese come il nostro, terzo in Europa a dotarsi di una connessione (grazie all’Università di Pisa) ma ancora ancora indietro rispetto alla media europea nelle statistiche sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti dell’interazione virtuale. Scrive il blogger , giornalista e politologo Filippo Sensi a proposito del ruolo dei media durante l’ultima campagna elettorale: “Ci aspettavamo una campagna virale, creativa, come era stato per le amministrative di Milano, con la vittoria di Pisapia. Non è che non ci siano stati spunti e che la Rete non abbia giocato un ruolo crescente. Ma l’impressione complessiva, anche alla luce dei risultati del voto, è che non si sia giocata online la partita elettorale”.

Abilissimo comunicatore e profondo conoscitore delle dinamiche alla base del consenso, Beppe Grillo si rende conto che la sua sopravvivenza pubblica e politica non sarebbe possibile, senza un’esposizione televisiva adeguata; per questo, la provocazione, la forzatura e il pirotecnicismo dialettico sono gli strumenti mediante i quali il leader pentastellato ottiene non soltanto la visibilità sul grande schermo, ma un ruolo assolutamente dominante nell’universo catodico. L’avvitamento del dibattito televisivo sulla recente polemica con la Presidente della Camera dei Deputati, è la prova e l’esempio paradigmatico dell’efficacia di questo indirizzo tattico e politico.

Il caso del 19enne italiano ucciso dagli inglesi in realtà lituani e le tante ombre del giornalismo spettacolo

Gb, 19enne italiano ucciso: “Rubava lavoro agli inglesi”

 Raid nel Kent: «Italiani, ci rubate il lavoro»

 19enne di Lecco ucciso a calci e pugni

 Joele Leotta, 19enne italiano ucciso a botte in Inghilterra: “Ci rubi il lavoro”

 Ucciso perché «voleva rubare lavoro agli inglesi»

 

Questi alcuni dei titoli, molto forti, utilizzati dagli organi di stampa italiani in merito al caso del 19enne di Lecco barbaramente assassinato in Inghilterra qualche giorno fa. Titoli, come abbiamo detto, forti e ad elevatissimo impatto emozionale, che facevano supporre una certezza, da parte dei cronisti, riguardo la dinamica dei fatti. Joele era stato ammazzato perché italiano. Un italiano che “rubava” il lavoro. Procedendo nella lettura dei pezzi, il lettore meno disattento non poteva però fare a meno di notare una certa confusione ed una certa vaghezza, nella ricostruzione cronistica. Sembrava che i ragazzi inglesi e Leotta avessero litigato, nel locale dove il 19enne lavorava, per motivi sociali e “razziali” (“ci rubate il lavoro”), sembrava che i killer avessero, una volta fatta irruzione nella stanza della vittima, urlato il loro odio etnico, ma tutto era formulato ed imperniato sul condizionale. Pare, qualcuno avrebbe detto, qualcuno avrebbe visto, qualcuno avrebbe sentito. Non c’era nemmeno, inoltre, la certezza che gli aggressori odiassero il giovane Leotta proprio in quanto italiano e non, più genericamente, in quanto straniero che “rubava” il lavoro agli autoctoni. La notizia, così confezionata, ha fatto il giro dei circuiti audiovisivi e cartacei nazionali, fino a che gli inquirenti di Sua Maestà non hanno scoperto che gli assassini, 4 per l’esattezza, non erano inglesi ma lituani e che il movente non è o non sarebbe sociale o “razziale” ma dovuto e allo stato di alterazione causato dalle sostanze allucinogene e alcoliche assunte dalla sciagurata comitiva. Ma c’è di più: sempre secondo gli investigatori, alla base del gesto potrebbe esserci, addirittura (anche in questo caso è d’obbligo il condizionale), uno scambio di persona. Altroché crociate di tipo etnico. Siamo dunque in presenza di un errore che si colloca al di là delle più elementari regole alla base dell’indagine e della narrazione giornalistica: manca il “Fact checking” (verifica dei fatti), manca il “Gatekeeping” (selezione dei fatti/notizie), manca la “Discovery” (ricerca degli elementi per la costruzione dell’articolo). Mancano, cioè, gli elementi cardine di quel “precision journalism” nato con i leggendari “muckrakers” di memoria rooseveltiana e codificato da Waklter Lippman, il più illustre dei reporter statunitensi del secolo XXesimo. Semplice trascuratezza? O, forse, il tentativo di fare sensazione, di fare ” Infotainment “, per qualche copia o click in più o per vedere schizzare l’audience? Si, forse, o forse c’è dell’altro. Forse, molla dell’ equivoco” è stato il movente politico, al servizio o della propaganda “migrazionista”, che in questo modo voleva mostrare al segmento xenofobo italiano il trattamento riservato ai nostri connazionali all’estero facendo ricorso al metodo dell’immedesimazione (“vedete che cosa si prova”) oppure al servizio della propaganda più retrivamente identitaria (“ecco gli inglesi cosa fanno a chi ruba loro il pane”). Il tutto, approfittando dell’onda emozionale causata dalle recenti tragedie lampedusane. In ogni caso e in tutti i casi, sia che si tratti di superficialità o di asservimento all’elemento politico-ideologico, ancora una volta il “grande” giornalismo, quello a tanti zeri, ha dato prova e dimostrazione di tutta la sua debolezza e inaffidabilità.

 

Un pensiero ai familiari ed agli amici del povero Joele.

Il grande bluff: la storia la fanno gli storici,non i vincitori

Tra i bastioni di una certa mitologia banalizzante la storia e la storiografia, se ne segnala uno in particolare, per inconsistenza logica e capziosità ideologica. Si tratta di un refrain tradizionalmente in uso (e in abuso) in via prevalente presso quelle comunità che hanno perduto una scommessa con le dinamiche materialistiche, un martellamento mantrico tanto chiassoso quanto fragile, contraddittoria e complessa è la posizione cui deve ergersi a difesa. Questa formula, un ibrido tra la provocazione e l’alibi, è la seguente: “la storia è scritta dai vincitori”. Ho parlato di inconsistenza logica per due motivi: 1) tutti possono scrivere e pubblicare un testo storiografico, anche attraverso canali importanti. Prendiamo Pansa o i revisionisti risorgimentali; costoro lamentano (o rivendicano?) il ruolo dei vessilliferi dei vinti (se non dei vinti stessi), con tutto il carico di marginalizzazione che questo “status” dovrebbe comportare, però trovano ampio spazio nei più importanti canali editoriali, sui media, sui giornali, ecc. 2) La storia è un insieme di fatti realmente accaduti e per questo immutabili, e la storiografia si pone, secondo la traccia tucididea, come loro ricerca, catalogazione ed analisi dinamica. Lo storico può offrire la propria lettura dell’evento, ma non può occultarlo o sabotarlo. In caso contrario, ci troveremo dinanzi al propagandismo, bianco, nero o grigio che sia, ma che è e rimane cosa ben diversa dal rigore scientifico del vaglio storiografico. Ancora un esempio: la saggistica accademica ci offre un vasto e variegato ventaglio sulle cause dello sfaldamento del cosiddetto “Impero Sovietico”; chi lo imputa (pochi osservatori e prevalentemente di nazionalità italiana o polacca) al ruolo di Giovanni Paolo II e del Vaticano, chi all’azione riformatrice di Michail Gorbačëv e del gruppo degli economisti yeltsiniani, chi, ancora, al gioco al rialzo di Ronald Reagan sugli armamenti, che avrebbe costretto l’URSS a depauperare le sue già fragili casse per non perdere terreno rispetto agli USA, chi alla balcanizzazione etnica dell’URSS e di alcuni Paesi d’oltre cortina, l’ “Impero esterno” (balcanizzazione che avrebbe svolto un ruolo centrifugo e disgregante), chi alla scarsità dei beni di consumo rispetto al comparto capitalistico (i piani quinquennali predilessero sempre lo sviluppo dell’industria pesante) e così via. Ognuna di queste teorie trova spazio nella piattaforma interpretativa di studiosi di provato credito quali Aganbedjain, Dibb, Gaddis, Brzezinski, Guerra, Skidelskty, ecc. Ci sono, però, una serie di dati incontrovertibili, cui nessun lavoro di scavo, sincronico o diacronico, può sfuggire:

1: Il Blocco non era retto da formule istituzionali democratiche

2: Il “gap” economico con l’occidente

3: Le spinte centrifughe delle comunità nazionali sovietiche e delle democrazie popolari europee.

Nessuno, quindi, può negare o espellere dal proprio ragionamento una serie di parametri fattuali tanto definiti e lineari, pena la trasformazione della storiografia in propaganda di tipo “politico”. P.S: Chi scrive è un estimatore delle democrazie popolari e della loro esperienza, ma ciò non mi ha impedito di imbastire una tesi sfrondata dai miei condizionamenti ideologici e personali.