Senza dubbio importante nel suo ruolo di apripista per le donne in un mondo, come quello del giornalismo, considerato prerogativa esclusiva dell’elemento maschile, Fallaci fu, tuttavia, una narratrice non affidabile ed inconcreta della storia e della realtá geopolitica. Troppo spesso scollata dal portato documentale, la giornalista fiorentina conferì alle sue analisi un’impronta emotiva e partigiana nonché una forma colloquilale lontane da ogni imperativo scientifico, elementi che segnano una distanza incolmabile tra i suoi lavori, la saggistica accademica e il “modus operandi” di ogni conoscitore del metodo d’indagine storiografico e della riflessione geopolitica più approfondita.
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“In Italia Charlie Hebdo ce lo sogniamo”. Davvero? Un messaggio per chi non conosce la storia, per chi non conosce sé stesso.
La tragedia parigina, con il suo corredo di errori, sviste e dilettantismi delle autorità francesi, ha messo in crisi quegli esterofili di casa nostra in servizio attivo e permanente, i quali, tuttavia, hanno cercato di rimediare denunciando quella che a loro modo di vedere sarebbe l’assenza, in Italia, di voci libere e indipendenti come “Charlie Hebdo”; “In Italia gente così ce la sogniamo”. Questo, in buona sostanza, il messaggio.
A costoro propongo e segnalo questa lista: sono gli italiani uccisi, feriti o perseguitati mentre facevano informazione, perché facevano informazione.
Sono tanti, sono 26, e forse ne mancherà qualcuno.
Sperando vi sia utile, con l’augurio possiate conoscerli, così da rispettarli, così da rispettare ciò che siete, ciò che siamo.
Buona lettura.
Cosimo Cristina
Mauro De Mauro
Giovanni Spampinato
Giuseppe Fava
Mauro Rostagno
Ilaria Alpi
Giuseppe Alfano
Giancarlo Siani
Carlo Casalegno
Walter Tobagi
Italo Toni
Graziella De Palo
Almerigo Grilz
Guido Puletti
Marco Luchetta
Gabriel Gruener
Antonio Russo
Maria Grazia Cutuli
Raffaele Ciriello
Vittorio Arrigoni
Enzo Baldoni (blogger)
Enzo Tortora
Giuseppe “Peppino” Impastato
Indro Montanelli (gambizzato dalle BR)
Simone Camilli
Miran Hrovatin
L’ endorsement: un limite e non una qualità del giornalismo britannico e americano.
Tra le peculiarità del giornalismo anglo-americano, l’endorsement, ovvero l’indicazione di voto da parte delle testate a vantaggio di un candidato, a ridosso delle elezioni (di qualsiasi tipo).
Secondo l’ editorialista del “Daily Telegraph” Simon Scott Plumerr, l’ endorsement è un elemento base del buon giornalismo, perché “non si può stare seduti sulla staccionata a guardare la contesa”.
Segnalato anche nel nostro Paese come uno dei punti di forza della stampa americana e britannica, la tesi è ad ogni modo discutibile; la testata che abbia pretese di terzietà non deve, infatti, influenzare, ma raccontare, con distacco e rigore, secondo quel giornalismo “scientifico” preconizzato da Tucidide e sviluppato da Walter Lippmann.
Diversamente, lo sbilanciamento verso questa o quella fazione rischierà di portare il giornalista al di là delle sue funzioni e prerogative, rendendolo “de facto” un propagandista (nel 2008 furono 154 i giornali schierati con il futuro trionfatore Barack Obama, per un totale di 15 milioni di copie, contro i 52 dalla parte di John McCain, per un totale di 4 milioni di copie)
Te saludi, Padania. Perché non mi mancherai.
Un certo fair play di maniera molto diffuso negli ultimi anni, suggerisce di esternare il proprio disappunto per la chiusura di una testata giornalistica, e questo al di là dei suoi contenuti ed orientamenti. “E’ pur sempre pluralismo”, “è pur sempre informazione”. Queste, le motivazioni.
Si tratta di un cliché che, personalmente e come iscritto all’Albo, respingo con forza; una testata, infatti, costituisce una ricchezza per il collettivo se rispetta le regole della deontologia giornalistica e se svolge un servizio per il lettore, autentico e reale.
La “Padania”, al contrario, si è sempre posta come la cassa di risonanza di un odio anti-meridionale e xenofobo inaccettabile in e per un consorzio democratico e progredito, introducendo nel modo di fare giornalismo elementi ed abitudini che hanno contribuito a dequalificare la professione.
Non mi rattrista, quindi, la fine dell’organo ufficiale della Lega Nord, come non mi avrebbe rattristato la chiusura del “Der Stürmer”.
“La salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che essa riceve” –
Walter Lippmann.
Se tutto va a rotoli, tutto funziona (per qualcuno). Quando il pessimismo mediatico nuoce più della crisi.
Compito dell’informazione più rigorosa (il giornalismo “scientifico” nato con Tucidide e sviluppato da Walter Lippmann ), quello di raccontare la realtà, per quello che è, senza manomissioni né strumentalizzazioni.
Raccontare la realtà, ad ogni modo, non significa “appesantire” la realtà, caricarla, ovvero, di sfumature negative, come invece tendono a fare, spesso e troppo spesso, il giornalismo e l’editoria. Le cause di questa stortura sono di ordine economico (la “notiziabilità” dello shock aiuta a vendere di più) e politico (dipingere la situazione generale a tinte fosche serve a screditare l’establishment di turno), quindi difficilmente rinunciabili e superabili, a svantaggio della comunità nel suo insieme.
Soprattutto nelle fasi più critiche, il pessimismo eccessivo, l’attenzione su ciò che non funziona, a dispetto di ciò che funziona, contribuiscono infatti a corrodere ancor di più la fiducia del cittadino verso il futuro e le istituzioni; è quindi lecito affermare come una fetta importante e cospicua dell’informazione svolga, nella sostanza, un ruolo non soltanto improprio sotto il profilo deontologico ma, prima di ogni altra cosa, “antisociale”.
Giornalisti arrestati negli USA.Il falso mito della “più grande democrazia del mondo”
Due giornalisti statunitensi, Wesley Lowery, del Washington Post, e Ryan Reilly, dell’Huffington Post, sono stati arrestati dalla polizia in un fast food di Ferguson, nei sobborghi di Saint Louis. I reporter si trovavano nella zona per documentare le protese seguite all’uccisione da parte delle forze dell’ordine del giovane afroamericano Michale Brown. Gli agenti, in tenuta antisommossa, hanno intimato ai due di spegnere le telecamere, spingendoli con forza fuori da locale per poi arrestarli.
Non è la prima volta in cui negli Stati Uniti la libertà di informazione e di espressione subisce gravi attentati come questo; ricordiamo, ad esempio il caso dello studente Andrew Meyer, sedato nel 2004 con il taser per aver rivolto domande “scomode” all’allora candidato democratico John Kerry (oggi Segretario di Stato) o le declinazioni più liberticide del “Patriot Act”, il dispositivo varato da George Bush Jr (e riformato da Barack Obama) per limitare e controllare la circolazione delle notizie ai tempi delle campagne militari americane in Iraq e Afghanistan.
Al di là delle suggestioni agiografiche del cinema o di una cultura conservatrice e guerrafreddista che stenta a consegnarsi alla storia, gli Stati Uniti del secolo XXIesimo si dimostrano ancora ben lontani dal diventare una piena e compiuta democrazia occidentale.
Il giornalismo americano cane da guardia della democrazia?Breve panoramica di un falso storico
1) la continuità democratica del mondo anglosassone
2) la vittoria nella I e II guerra Mondiale e la collocazione in antitesi al blocco comunista
3) il potere derivante dalla grande distribuzione commerciale di cui, soprattutto il cinema stars&stripes, può godere.
Redazioni cariche di reporter d’assalto alla Hoffman e Redford con le maniche tirate su, la cravatta allentata e pronti a dare la caccia a questo od a quel procuratore, a questo od a quel potente, sono un’affascinante elaborazione filmica e televisiva, una dilatazione, in senso agiografico e mitologico, di un mondo ben diverso e più complesso.
Entrando più nel dettaglio, potremmo suddividere la storia del giornalismo americano in 4 fasi: quella dei pionieri ( “muckrackers” e “penny press”), la nascita della propaganda, la Sidle Commission e l’ informazione “embedded ”, l’ ingresso dei grandi gruppi commericiali nelle redazioni e l’ “infotainment”.
I Pionieri: a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, sorse negli Stati Uniti la categoria dei cosiddetti “muckrackers ” (“spalaletame”, da una definizione di Theodore Roosevelt), una pattuglia di cronisti che si occupava delle inchieste contro i grandi trust delle ferrovie, della borsa, dell’edilizia o, ancora, della condizione dei minori, delle donne , degli afroamericani e delle minoranze in genere. A questi coraggiosi narratori della verità, (Lincoln Steffens, William Shepherd, William Hard, Jacob Riis, per citarne soltanto alcuni), si aggiunsero editori come Joseph Pulizer o William Randolph Hearst, capaci di sfruttare le enormi potenzialità che invenzioni come il telegrafo potevano offrire alla stampa, in termini di numero di copie, qualità dell’impaginazione e taglio dei costi (fu in questo periodo che vide la luce la leggendaria “penny press”, la stampa d un centesimo)
Nascita della propaganda: è opinione comune sia stato l’affondamento del transatlantico “Lusitania” la molla dell’entrata in guerra degli USA a fianco delle potenze dell’Intesa nel 1917, ma è un dato soltanto parzialmente corrispondente al vero. L’Amministrazione Wilson, infatti, era già riuscita a convincere la recalcitrante opinione pubblica nazionale attraverso l’opera massiva e massiccia del “Committee on Public Information”, un organismo antesignano delle moderne PR guidato dal giornalista George Creel. Inoltre, nel 1918 il Congresso votò il “Sedition Act”, che vietava qualsiasi forma di opposizione al conflitto. Questi elementi (la rinascita e l’istituzionalizzazione della propaganda e l’ irregimentazione dell’informazione secondo i dispositivi legislativi), contribuirono alla fine del giornalismo d’assalto americano. Sconvolto da una simile manomissione dell’impianto democratico, uno dei padri del moderno giornalismo statunitense, Walter Lippman, nel suo “Liberty and News” gettò si semi del cosiddetto “giornalismo scientifico”, elaborando un vademecum che il cronista doveva seguire per sfrondare il suo lavoro dalle seduzioni e dagli inganni della propaganda, in modo da consegnare al lettore una narrazione il più obiettiva e deontologicamente corretta possibile.
Ingresso delle grandi corporations nei media : nel 1980, la finanza statunitense scoprì il grande potenziale che le piattaforme mediatiche potevano offrire in termini commerciali e pubblicitari. Fu così che colossi come la General Elettric, la Disney, la Twentieth Century Fox o, ancora, la Viacom, fagocitarono le maggiori testate cartacee e i maggiori canali audiovisivi. Effetto collaterale di questa operazione fu la nascita dell’ “infotainment” (“intrattenimento-spettacolo”), un genere di informazione variegato e popolare nato con lo scopo di cooptare il maggior numero possibile di spettatori (e quindi di acquirenti) senza badare alla qualità del prodotto. Da quel momento sarà, di conseguenza e in senso stretto, il privato a fare e a finanziare l’informazione. P.s: inoltre, questi grandi gruppi non possono permettersi un atteggiamento ostile verso il potere. Da qui il bisogno di limitare l’azione delle redazioni poste sotto il loro controllo.
Sidle Commission ed informazione “embedded”: dopo le disastrosa esperienza in Indocina e Grenada, il governo americano decise di dare vita ad un nuovo organismo di controllo che, in tempo di guerra , impedisse ai giornalisti di fare libera e critica informazione, così come avvenuto nelle fasi finali del conflitto con il regime di Hanoi e durante il blitz reaganiano contro lo stato caraibico (Operazione Urgent Fury). Fu allora che venne concepita la Sidle Commission (dal nome di uno dei suoi promotori, il generale Winant Sidle), un soggetto creato non per censurare la stampa di guerra bensì per legarla al potere, disinnescandone il potenziale, quindi, ma senza danneggiare l’immagine delle istituzioni facendole passare per illiberali. Nacque e si sviluppò quindi quella che il Senatore William Fulbright definì “la militarizzazione dell’informazione”; erano i vertici militari a fornire informazioni alla stampa ed a consentirle di seguire le truppe. In questo modo, gli inviati diventavano dipendenti dalle loro fonti (nel caso di specie governo ed esercito) e tra esse incastonati, “embedded ”, per l’appunto, sviluppando un rapporto fideistico che ne avrebbe azzoppato la libertà di movimenti e narrazione.
Una breve ricognizione sulla storia della stampa a stelle strisce, dimostrerà che, Watergate a parte (l’inchiesta ebbe comunque il suo principale motore negli apparato investigativi federali), i cronisti americani non hanno mai cercato di forzare le serrature dei tanti armadi contenenti gli scheletri nascosti dal loro Paese, a partire dagli omicidi dei fratelli Kennedy, di Martin Luther King, di Malcom X, dalla corruzione nelle realtà locali (specialmente a sud della Mason Dixon Line) , allo strapotere delle multinazionali, a progetti come l’MK Ultra, alle torture dei prigionieri nelle zone di guerra, agli errori giudiziari, ecc. ecc. A questo proposito è utile ricordare il totale appiattimento sull’ondata di revanscismo sciovinista seguito all’11 settembre e alle decisioni dell’amministrazione Bush o, ancora, il silenzio assordante sulla contestata elezione dell’ex Governatore del Texas, quando ad una rilevante porzione dell’elettorato ispano-americano della Florida fu impedito l’accesso al voto e non vennero effettuati i riconteggi delle schede in 18 contee dello Stato (il Governatore era Jab Bush, fratello del futuro Presidente). In quel frangente, il tanto decantato giornalismo americano insisteva soltanto affinché fosse proclamato un eletto, indipendentemente dalla validità della consultazione.
Non un “watchdog”, quindi, ma una colonna e un diffusore della “pluralistic ignorance”.
Il bar di Del Debbio
Tempo fa mi capitò tra le mani un’intervista realizzata al giornalista Mediaset (“giornalista” e “Mediaset”: ossimoro, calembour o pareidolia acustica?) Paolo Del Debbio avente come argomento il suo, ahimè popolare, “Quinta colonna”. Del Debbio si vantava di aver trasferito e riprodotto il clima “da bar” nella sua piattaforma televisiva, motivo questo, secondo lui, del successo riscontrato dal format. Chiunque abbia avuto l’occasione di sostare su “Quinta colonna”, non potrà infatti non aver notato il baccanale, la fragorosa pochezza e il qualunquismo spicciolo caratterizzanti il contenitore, più vicinio, giustappunto, ad una bocciofila isterica che ad un programma di approfondimento politico e sociale. Tralasciando le scontate, pedanti e torcicollesche speculazioni storico-sociologiche sulle nobili radici ed i fulgidi esempi a sostegno e a merito del giornalismo, nazionale come estero, episodi di questo genere non possono che far riflettere sulla decadenza e il deterioramento non soltanto di una “disciplina”, ma anche delle capacità percettive delle masse, sempre più attratte dal ribasso, dalla semplificazione primitiva, dall’approssimazione per difetto, sempre più imprigionate in un’aporia mentale e civile preparata e confezionata da decenni di imbarbarimento dell’offerta televisiva e, più in generale, mediatica. Per non parlare di “Quarto Grado”. In questo caso, però, ci trasferiamo in un livello superiore e ben più complesso: non si tratta, infatti ed ufficialmente, di un programma di approfondimento politico, ma viene fatta ugualmente politica con attacchi, continui e costanti, alla magistratura senza che vi siano un contraddittorio, il rispetto delle normative sulla par condicio e senza che (ed è la cosa più importante) il telespettatore abbia attivato quei sistemi di schermatura, filtraggio ed analisi che solitamente vengono messi in funzione durante un dibattito di tipo politico. Ecco quindi che il circuito propagandistico dell’arcoriano penetra, letalmente e subdolamente, nella coscienza culturale della massa, impregnandola, alterandola e indirizzandola. Altri esempi di indottrinamento subliminale possono essere “Forum”, “Buona Domenica” o “Chi vuol essere milionario”
Che cosa non è giornalismo
Un’intera prima pagina dedicata ad un solo candidato ed alle sue proposte; quel giornalismo che non piace, quel giornalismo che fa lo sgambetto, autosgambettandosi, al Decalogo di deontologia giornalistica dell’UNESCO.