L’India, il Covid e quei cadaveri bruciati: alcune precisazioni

Da quasi quattromila anni, i riti funebri induisti (“antyeshti”, “l’ultimo sacrificio”) prevedono la cremazione del defunto, all’aperto. Una pratica maggioritaria in India, se si pensa che oltre l’80% degli cittadini è di fede hindū.

Bruciare i corpi dei morti, e farlo non all’interno di strutture preposte e al chiuso come noi occidentali, è dunque una tradizione antichissima e consolidata nel Paese di Gāndhī, che nulla ha a che fare con l’emergenza Covid (al contrario, in caso di epidemia gli hindū seppelliscono i corpi).

E’ d’altro canto difficile pensare che un gigante di 3.287.263 km² per quasi 1 miliardo e 400mila abitanti, con complessità drammatiche e circa 28 mila decessi quotidiani, possa andare in tilt a causa di 2000 morti in più in un giorno distribuiti sull’intero territorio nazionale, al punto da non saper dove sistemare i cadaveri.

Senza dubbio Nuova Delhi non può affidarsi ad un sistema sanitario evoluto e un’esplosione epidemica potrebbe rappresentare un grave problema, ad ogni modo si ha l’impressione che certe immagini vengano usate (come già fu con quelle delle “fosse comuni” e delle file di bare in Brasile, in realtà antecedenti l’epidemia) per far leva sull’emotività, rafforzando la narrazione emergenziale.

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Perché Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non sono due “mercenari”.Geopolitica e sostanza della forma.

maròSemplicistica al pari della definizione di “eroi”, è senza tema di smentita quella di “mercenari” , in riferimento ai Marò al centro della crisi diplomatica tra Roma e Nuova Dehli iniziata nel febbraio del 2012 con l’uccisione di due pescatori al largo della costa del Kerala (India occidentale).

Se, infatti, è vero che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non stavano proteggendo direttamente il nostro Paese da un invasore straniero, è altrettanto vero che, scortando una petroliera battente bandiera italiana (l’Enrica Lexie) in acque rese pericolose dalla pirateria, il loro ruolo era di difesa del nostro “soft power”, ovvero quel segmento vitale per un Paese (e specialmente per noi, limitati nel ricorso all’ “hard power) e concernente, anche, l’economia, il commercio e , dunque, il prestigio di un attore sulla scena internazionale. Da non dimenticare, inoltre, come lo Stato tragga un’importante fonte di guadagno da operazioni di assistenza ai privati come quella in oggetto.

Caso estremamente complesso e delicato, la crisi italo-indiana richiederà, da una parte e dall’altra, l’abbandono dell’elemento ideologico come passo necessario e basilare per una sua lettura serena, matura e consapevole.

Nda: Cerniera di collegamento tra gli interessi interni e le vicende esterne, anche la forza militare (l”hard power”). Per una “middle power” e “regional power” con e l’Italia, membro G-8 e G-20, si rendono necessari, dunque, anche passi quali l’acquisto degli F-35

Marò: perché a Roma e Bruxelles non conviene il muro contro muro con Nuova Delhi

maròIn un precedente contributo, erano stati evidenziati gli ostacoli di natura diplomatica che rendono di difficile soluzione il nodo Marò, in primis la differenza tra il ruolo di “Great Power” (Grande Potenza) dell’India rispetto a quello di “Middle Power” (Media Potenza) del nostro Paese, differenza dovuta ad elementi di tipo geografico, demografico e militare. Oggi, l’analisi si soffermerà sui fattori di natura economica che condizionano, “obtorto collo”, le scelte dei nostro governi, complicando la soluzione della crisi con Nuova Delhi.

Con 1.210.193.422 di abitanti (seconda potenza demografica mondiale destinata a superare la Cina intorno al 2028 ), un’architettura democratica di tipo occidentale (pur con molte ed evidenti alcune) retaggio del dominio britannico, l’adozione dell’Inglese come seconda lingua ufficiale, un “know how” tecnologico di altissimo profilo e la sua vicinanza geografica al gigante cinese, l’India si pone infatti quale attore e mercato economico di primo piano, imprescindibile tanto per l’Europa quanto per l’Italia, forse destinato, secondo alcuni osservatori, a “mettere in discussione il sentiero canonico dello sviluppo economico” *

Entrando più nel dettaglio, noteremo come l’India risulti essere il primo partner commerciale della UE con un volume d’affari di circa 67 miliardi di euro, mentre per quel che concerne le relazioni con Roma sono circa 400 le imprese italiane ad operare nel Paese. Nell’ultimo decennio, inoltre, l’India è passata dalla posizione numero 45 alla 25 nella graduatoria dei clienti dell’Italia. Nel solco di questa partnership, il nostro Ministero degli esteri, l’ICE e l’Unioncamere hanno avviato nel 2006 l’iniziativa “Invest you talent in Italy”, rivolta agli studenti indiani allo scopo di attirare i “cervelli” di Nuova Delhi da noi. E’ dunque, l’India, un mercato in continua ed inarrestabile crescita dalle potenzialità enormi (che tuttavia Roma sfrutta molto meno dei suoi competitor più importanti), nel quale le strategie di “soft power” italiane potrebbero, con la dovuta assistenza e copertura delle nostre istituzioni, penetrare a beneficio dell’intero sistema Paese (si pensi ai beni di lusso per le classi emergenti indiane) con proiezioni interessanti sull’intero scacchiere asiatico, in un vero e proprio “win win scenario”.

Se ne deduce pertanto l’impossibilità (da parte di Roma e Bruxelles) di mettere a rischio un volume d’affari di miliardi di dollari e migliaia di posti di lavoro per l’errore (perché di questo pare trattarsi) di due singoli individui. Il prestigio dell’Italia, ad oggi limitata da fattori storici e culturali nel ricorso all’ “hard power”, passa anche e soprattutto dalla sua capacità di fare mercato.

Nda: proprio in ragione del prestigio indiano nel settore IT, il Premier cinese Weng Jaiabo definì nel 2005 il suo Paese l’hardware (la “fabbrica”) del mondo e l’India il software (il “cervello”).

*“Italia potenza globale? Il ruolo internazionale dell’Italia oggi”

L’Italia,i Maro’ e quella liberta’ che non sappiamo di avere

« Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo. »

Queste le parole pronunciate da Yukio Mishima prima di compiere il suicidio rituale. Era il 25 novembre del 1970. Mishima, paramilitare e patriota, non poteva tollerare quello che reputava un asservimento del Giappone agli USA e all’Occidente entro i termini, durissimi (ma giusti), del Trattato di San Francisco. Tale carta impediva infatti al Giappone di possedere un esercito, che non fosse di autodifesa, affidando la protezione dei confini agli Stati Uniti. Dopo la resa, l’ex impero del Sol Levante subì un’occupazione “manu militari” da parte di Washington che si protrasse per anni ed il totale smantellamento della sua architettura costituzionale, sociale e culturale. Stessa sorte toccò alla Germania e all’Austria. Solo una potenza, tra quelle uscite sconfitte dall’esperienza bellica, seppe scampare ad una punizione tanto dura: l’Italia. Questo perché la co-belligeranza del demonizzato Maresciallo Badoglio (demonizzato da chi non possiede gli strumenti di analisi necessari all’interazione con le scienze storiche oppure è accecato dal furor ideologicus) ed il ruolo della lotta partigiana, indussero gli Alleati a concedere a Roma un trattato di pace entro termini più morbidi ed elastici rispetto a quelli dei nostri ex compagni si sventura. Evitammo così l’occupazione del suolo nazionale, la destrutturazione del nostro edificio civile e potemmo disporre, e possiamo disporre, di una libertà di manovra mai concessa, o concessa molto tardivamente, a Berlino e Tokio (si pensi alla coraggiosa ed illuminata politica filo-araba di Craxi e della DC, a Sigonella, alla possibilità di inviare truppe all’estero già dagli anni ’40-50, di possedere portaerei e di progettare armi nucleari per una “force de frappe” con Parigi, progetto poi accantonato all’inizio degli anni ’80, al numero relativamente limitato di truppe americane sul nostro suolo, ecc). A molti nazionalisti a corrente alternata che fanno spallucce, per mero e squallido calcolo elettorale e di pentola, quando Bossi&co dicono di volersi mondare l’orifizio anale con il tricolore, piacerebbe che Monti inviasse la portaerei Cavour nell’Oceano Indiamo o i Tornado armati di bombe nucleari sui cieli di Nuova Dehli, ma il nostro Paese non può farlo, e non può farlo, ripetiamolo, perchè ha perduto quella scommessa armata scelleratamente voluta da Benito Mussolini e perchè per 50 anni ha avuto bisogno (come la Germania, il Giappone e la Sud Corea) della subordinazione-protezione degli ed agli USA in ragione del nostro ruolo di cuscinetto tra l’EST e l’OVEST. Motivo, tra l’altro, per cui abbiamo dovuto soprassedere sul Cermis, così come tedeschi, giapponesi e sudcoreani soprassiedono, dal 1945-1953, sui crimini che gli “yankees” perpetrano spavaldamente in casa loro. Per quel che concerne il caso Marò, Monti non avrebbe potuto fare altrimenti, salvo condurre alla garrota 400 aziende italiane che operano in India per un fatturato di 10 miliardi di euro e migliaia di posti di lavoro. Indubbio, ovviamente, esista un “secret deal” sotto forma di piano b che consenta a noi di riportarle in patria i fucilieri non appena placatasi la tempesta e ai nostri “contenders” di salvare la faccia.

Caso Maro’: elogio controcorrente del governo

Quali che fossero i termini che articolavano il “secret deal” tra Italia e India in merito all’ affaire Marò, il lavoro del nostro Governo si era dimostrato, ancora una volta, eccellente. L’obiettivo di riportare a casa i due militari era stato pienamente centrato, mentre sulla sponda opposta, il premier indiano non aveva fatto i conti con la propria opposizione interna (socialdemocrat­ica ma non antinazionale, a differenza dei nostri “liberal” cresciuti alle Feste dell’Unità) e con la virulenta pressione della stampa. Una svista non di poco conto, tanto da costringere Nuova Dehli ad una brusca inversione di rotta tradottasi nel ricatto di far saltare affari e commesse a ben 400 aziende italiane. Il Governo Monti si è quindi trovato a dover scegliere tra l’interesse di migliaia di nostri imprenditori e lavoratori (e su entrate per miliardi di euro) ed un principio che si presentava con il volto del nazionalismo più puerile, obsoleto e pancista. Come buonsenso detta, ha optato per la prima soluzione. Solo un osservatore molto ingenuo o del tutto contaminato dal furor ideologicus potrebbe ignorare l’esistenza di un nuovo “patto” tra noi e gli Indiani, in modo da rendere salva la vita (e la libertà) ai due fucilieri non appena placatasi la tempesta e da permettere a Nuova Dehli di salvare, com’è giusto che sia, la faccia. Molti si chiedono che cosa avrebbe fatto Berlusconi, qualora si fosse trovato al posto di Terzi e di Monti; la stessa cosa, giacché altro non era possibile né sensato fare. Una postilla: chi blatera di dignità nazionale violata ed offesa, dov’era quando la Lega Nord per l’indipendenza della Padania diceva di volersi mondare l’orifizio anale con il tricolore? Faceva spallucce e minimizzava, e questo per squallido calcolo elettorale. Nazionalismo a targhe alterne? No, grazie. P.s: Chico Forti è ancora rinchiuso in un carcere federale della Florida. In questo momento sta contando le ore in un buco di 2 metri per due.

Ancora sui Maro’:dietro lo specchio

Da “Internazionale­”:

“Dietro il tradimento italiano si nasconde un sofisticato razzismo”, scrive First Post. L’Italia non sta contestando il crimine o la colpevolezza dei marinai, e alle famiglie delle vittime è stato anche offerto un risarcimento: semplicemente il governo italiano non può accettare che dei giudici indiani dalla pelle scura possano giudicare i suoi cittadini”.

Si tratta di “arroganza razziale” anche per The Hindu Business Line: “i mezzi di comunicazione e l’opinione pubblica italiana hanno sempre mostrato indifferenza verso la morte dei due pescatori indiani”. Secondo il quotidiano per gli italiani i popoli del sudestasiatico sono rappresentati “dallo stereotipo dell’immigrato che vende fiori per le strade di Roma”.

Ecco perché, per l’Italia, “salvare i loro marinai da un “paese del terzo mondo” è un motivo di orgoglio nazionale più che di obbligo politico.

Aggiunta personale: il “secret deal” tra i due governi è poi tutt’altra cosa. Un segreto di Pulcinella di cui sono a conoscenza anche le stesse opposizioni indiane. Nuova Delhi deve giocare a fare la voce grossa per un po’, forse in cambio di un voto favorevole in sede ONU da parte di una potenza del G8 come l’Italia sulla questione Kashmir. A scanso di equivoci, chi scrive proviene da una famiglia di militari. La mia analisi è scevra da qualsiasi pregiudizio di tipo ideologico.

Tutti gli uomini sono uguali,ma i Maro’ sono piu’ uguali di Forti

Dopo l’entrata in guerra nel 1940, in Italia ci fu, come prevedibile, un brusco calo nell’offerta dei carburanti per le aziende che gestivano il trasporto pubblico (la precedenza veniva assegnata ai mezzi militari). A questo si sommarono l’arresto della circolazione automobilistica privata e la difficoltà nel reperire pezzi di ricambio per i veicoli a motore. Il risultato fu un sovrautilizzo dei bus e dei tram, che in brevissimo tempo si trasformarono in veri e propri carri bestiame stipati fino al limite dell’immaginabile. Dal momento in cui tale condizione favoriva coloro i quali salivano senza biglietto, le aziende del trasporto pubblico imposero che non si potesse salire se non dalla porta posteriore e uscire da quella anteriore, in modo che chiunque fosse costretto a passare davanti al bigliettaio. Enormi erano i disagi per i passeggeri, costretti ad uno slalom soffocante tra decine e decine di persone, ma c’era una categoria che, in barba alle regole, si arrogava il diritto di salire dalla parte anteriore (quella adibita alla discesa) evitando così questa stressante gimkana: i poliziotti. Ad essi si aggiunsero nel giro di brevissimo tempo i Vigli del Fuoco, poi ancora le Fiamme Gialle, i militari della Milizia e via discorrendo. Non avevano nessuna dispensa per godere di un tale favoritismo, ma veniva loro concesso perché indossavano una divisa. Tutto qua. Celebre fu il caso di una vecchietta che, stremata dalla fatica, chiese al controllore di salire dalla parte anteriore, cosa che le fu negata. “Se ne stia a casa. Siamo in guerra!”, fu la sentenza di quel piccolo e “solerte” capetto, anch’egli munito di un’ uniforme, di una parvenza di testosteronica autorità. Ora, i Marò rimpatriati e tenuti in Italia in barba (almeno ufficialmente) agli accordi con l’India, sono rei dell’uccisione di due poveri pescatori, due padri di famiglia, scambiati per pirati. La macchina ideologica patriottarda (spenta e parcheggiata quando il micropartito Lega Nord dice di volersi pulire il culo con il tricolore), si è subito messa in moto per “liberare” i due reclusi, alimentata e sostenuta dalle forze delle istituzioni e dei partiti, in uno sforzo comune che ha prodotto i risultati attesi: Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono e resteranno a casa. Potere di quella divisa, di quel catalizzatore di pulsioni ideologiche che, invece, un Chico Forti non può vantare e mettere in campo. Mentre io sto scrivendo e voi mi state leggendo, Forti si trova in una cella di 2 metri X 2 di un penitenziario federale della Florida, tra spacciatori, mafiosi, stupratori ed assassini, per un crimine che, molto verosimilmente, non ha commesso e sulla base di un impianto accusatorio lacunoso ed indiziario. Ma per lui nessuno si muove, anzi; l’ex ministro degli Esteri Frattini depose il sigillo sul’ amara condizione di quel nostro connazionale con un laconico e sgangherato: “la giustizia americana non è quella dei films”. Qual prodigio di ars bene loquendi, il nostro ministro, nevvero? In un’eterna riproposizione dei ruoli di forza, del concetto orwelliano di disparità mascherata dal garantismo più ipocritamente ecumenico, ai due Marò potremmo assegnare il ruolo di quei poliziotti che montavano sui tram e sui bus dalla parte anteriore, e al povero Forti quello della vecchietta.

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