“Scientismo” e “ufficialismo” sono esempi di “fondamentalismo” e il fondamentalismo, indipendentemente dalla sua natura (religiosa, politica, ideologica, ecc), idealizza sé stesso ed esclude e rifiuta la differenza, mirando, in ultimo, ad annichilirla e schiacciarla. E’, insomma, totalizzante, spesso collegato al narcisismo. Intrinsecamente distruttivo.
Non diversi quindi, per questo e in questo, da “complottisti”, “no-vax” (per principio) e anti-scienza, perché fondamentalisti allo stesso modo, nella sostanza benché non nella forma.
Da qui si comprende come persone “insospettabili” ed istruite abbiano, in questi due anni, sposato un approccio dogmatico e fideistico, tradendo gli stessi criteri del metodo scientifico, e attaccato con ferocia e livore il dissenso e il dissenziente (anche perché condizionati dal clima emotivo particolarissimo e da una certa narrazione istituzionale e mediatica).
L’annullamento o la compressione delle libertà individuali e politiche possono verificarsi e si verificano anche all’interno dei regimi democratici, non sono una peculiarità esclusiva di quelli dittatoriali, totalitari e autoritari.
Se è vero che la democrazia italiana non sembra a rischio, è altrettanto vero che non considerare le disposizioni attuali (nonché quelle passate e quelle annunciate) per ciò che realmente sono, ossia una limitazione della libertà del cittadino e una riduzione della qualità della sua vita, sarebbe miope e pregiudizievole.
Mette allora in atto una mistificazione consapevole chi cita l’esempio di paesi come la Corea del Nord per ridimensionare il peso e la portata di quello che stiamo vivendo e sperimentando. Un’estremizzazione ed una forzatura, la “reductio ad Corea del Nord”, che denota, in ultima analisi, la fragilità argomentativa di chi la propone, incapace di confrontarsi attraverso contenuti più razionali.
Non è raro che il refrain (stupido e senza senso) “ok boomer” venga usato da soggetti che fanno anche parte del movimento d’opinione più “prudente” e rigido rispetto alla crisi sanitaria. Quelli che si battono (o dicono di farlo) per la strenua difesa dei “nostri anziani”, tra i quali vi sono proprio i “boomer”.
Un paradosso che dimostra come, per alcuni, il Covid e l’ “emergenza” siano solo una questione ideologico-politica e non etico-morale, un baluardo identitario avulso da ogni autentico e genuino afflato empatetico.
“Perché più siamo a vaccinarci e prima batteremo il Covid”; così Maria Elena Boschi, in un post sulla sua vaccinazione (prima dose).
Ma che cosa intende, l’ex ministra, quando parla di battere il Covid?
Puntare, seguendo l’esempio inglese, ad una razionale soglia di morti e ospedalizzati (da dicembre la media dei decessi nel nostro Paese è comunque già in linea con gli anni passati) sotto la quale riprendere la vita in modo normale e naturale?
O ambire all’eradicazione, al famigerato “rischio zero” o ad avvicinarsi ad esso, come peraltro ventilato da Roberto Speranza, Gualtiero “Walter” Ricciardi ed altri personaggi vicini all’esecutivo? Ambire, cioè, ad un traguardo impossible (quantomeno in tempi ragionevoli), perdendosi in una battaglia dagli esiti devastanti e catastrofici per tutti, SSN compreso?*
Chi riveste certi ruoli, chi è tanto esposto, dovrebbe sempre comunicare con chiarezza, consapevole del peso che le sue parole hanno e possono avere. A meno che, e allora avremmo ragione di preoccuparci, certa “ambiguità” non sia, nel caso di specie, studiata e voluta.
*battaglia che sarebbe anche anti-etica, quella del “rischio zero”, perché assegnerebbe una priorità, un ruolo qualitativamente differente, ai morti attribuiti al Covid.
L’Inghilterra dà prova, almeno per adesso, di grande raziocinio, avvicinandosi alla normalità senza lasciarsi intimorire dall’allarmismo (infondato) sull’ennesima variante, guardando al dato, buonissimo, dei morti e degli ospedalizzati e non a quello dei contagi. Una “lezione” quanto mai utile per i governi più chiusuristi, in primis quello italiano a trazione giallo-rossa.
Puntare al “rischio zero”, o comunque a lambirlo, come peraltro suggerito da Speranza, Ricciardi o da altri esponenti della maggioranza e dell’esecutivo, e attribuire al numero dei semplici positivi, asintomatici compresi (inseguiti con un tracciamento a tappeto), la stessa importanza di quello dei morti e dei ricoveri, significherebbe infatti rendere inutile o quasi l’arma dei vaccini (non tutti possono essere vaccinati, i vaccini non possono “funzionare” al 100% e tantomeno possono bloccare la diffusione del virus), fare carta straccia dei parametri dell’immunità di gregge e rimandare “sine die” il ritorno alla vita ante-marzo 2020.
A quel punto non saremo più di fronte, si faccia attenzione, ad un problema medico-sanitario, bensì ad un problema etico-politico, con la politica incapace di scendere a patti con il Covid, incapace di metabolizzare lucidamente e laicamente ogni rischio, anche il più lieve e fisiologico, collegato al virus cinese.
Uno scenario in linea teorica catastrofico per i cittadini come per le istituzioni, che vedrebbe tra i suoi responsabili anche l’intossicazione ansiogena e polarizzante causata dai media, da taluni opinionisti e dalle stesse autorità.
La disinformazione allarmistica sui rischi derivati dalla vaccinazione non è diversa, nella forma e nella sostanza, da quella sui rischi derivati dal Covid. Fa quindi sorridere, volendo essere indulgenti, che a debunkizzare e denunciare con pedanteria didascalica la prima siano gli stessi che in questi mesi hanno favorito e alimentato (e continuano a farlo) la seconda, senza preoccuparsi minimamente delle ricadute psicologiche, pesantissime, sulle persone.
Come previsto e prevedibile, la cattiva informazione è un “mostro” che presto o tardi si rivolta anche contro chi lo nutre ed alleva.
« Lo Stato liberale, con la circospetta e ferrea limitazione della dei suoi interventi nella sfera collettiva (se non sotto la forma del paternalismo scelto, in una certa fase, da qualche da qualce frazione dei suoi gruppi dirigenti), venne colpito in pieno (e travolto) dalle “tempeste d’acciaio” scatenate dalla Prima Guerra Mondiale. E il controllo dell’informazione e le attività propagandistiche totalizzanti che esso mise in campo e dispiegò rappresenteranno altresì il viatico e il brodo di coltura per una serie di apprendisti stregoni che sapranno appropiarsene, trasformandosi, per molti versi, nelle avvisaglie e nei laboratori del totalitarismo. »
Sociologo della comunicazione, massmediologo, saggista e consulente di comunicazione politica e pubblica, il Prof. Panarari offre uno spunto per una riflessione sulla fase storica odierna.
Benché oggi la democrazia occidentale sia senza dubbio molto più matura e solida rispetto al 1914-1918, il “criterio di eccezionalità” (impiegato con le sue varie ramificazioni nell’emergenza Covid) resta uno strumento ambiguo e in linea teorica pericolosissimo, per i suoi effetti nell’immediato ma soprattutto per il precedente che è andato a creare.
Non va tuttavia escluso che la sua adozione possa anche determinare una “reazione di rigetto”, capace di irrobustire, invece di indebolire, la democrazia formale, quella sostanziale e, più in generale, la cultura democratica.
« Nella nostra epoca, è largamente vero che la scrittura politica sia una pessima scrittura. Quando ciò non è vero, si scoprirà generalmente che lo scrittore è un qualche tipo di ribelle che esprime le proprie opinioni personali e non una “linea di partito”. L’ortodossia, di qualunque colore essa sia, sembra domandare uno stile imitativo e smorto. I dialetti politici rinvenibili nei pamphlet, negli articoli di fondo, nei manifesti, nei libri bianchi e nei discorsi dei sottosegretari variano certamente da partito a partito, ma sono tutti accomunati dall’impossibilità di ritrovarvi una figura retorica fresca, vivida, originale. Quando si ascolta un vecchio ronzino che ripete meccanicamente le espressioni familiari sul palco del comizio, come atrocità bestiali, tallone di ferro, tirannia sanguinaria, i popoli liberi del mondo, stare spalla a spalla, si ha spesso la singolare sensazione di non stare osservando un essere umano, ma una specie di marionetta, sensazione che diviene improvvisamente più forte nei momenti in cui la luce viene riflessa dagli occhiali dell’oratore, tramutandoli in dischi vuoti che non sembrano avere degli occhi al di là di essi. E non si tratta nemmeno di lasciarsi prendere dalla fantasia: un oratore che usa quel tipo di fraseologia ha già intrapreso la strada verso il tramutarsi in una macchina. I suoni adatti provengono dalla laringe, ma il cervello non è coinvolto nella stessa misura in cui lo sarebbe se stesse scegliendo le parole da sé. Se il discorso che sta pronunciando gli è familiare a furia di averlo ripetuto in continuazione, potrebbe essere quasi inconsapevole di ciò che dice, come quando si pronunciano le risposte in chiesa. E tale stato di consapevolezza ridotta, seppur non indispensabile, è ad ogni modo favorevole alla conformità politica. »
Ancora: «La grande nemica di un lingua chiara è l’insincerità. Quando c’è uno scarto ra gli obiettivi reali e quelli dichiarati, uno ricorre istintivamente alle parole lunghe e alle usurate frasi fatte, come una seppia che schizza inchiostro […] Quando l’atmosfera generale è malata, la lingua deve soffrire. »
Così George Orwell, nel suo saggio “La neolingua della politica”.
Benché abbastanza lontane nel tempo (1946), queste riflessioni di Orwell si adattano benissimo al contesto attuale, anche per quel che riguarda la comunicazione politica nell’ emergenza Covid. Formule come “il virus non concede deroghe”, “il virus è in espansione” (questa, a nostro giudizio, clamorosa), “ragionevolezza e prudenza”, “siamo all’ultimo miglio” (per quale ragione non usare il sistema metrico decimale?), nonché tutto l’arsenale metaforico e lessicale di importazione bellica, risultano fumose, ambigue, ingannevoli, inutilmente ampollose.
Quale sia il motivo di una scelta simile (pigrizia mentale? Ignoranza? Propaganda?), il risultato è confondere ancora di più il cittadino e allontanarlo da chi dovrebbe decidere della sua “sicurezza” (anch’esso un termine spesso usato in modo criptico o improprio).
Da quasi quattromila anni, i riti funebri induisti (“antyeshti”, “l’ultimo sacrificio”) prevedono la cremazione del defunto, all’aperto. Una pratica maggioritaria in India, se si pensa che oltre l’80% degli cittadini è di fede hindū.
Bruciare i corpi dei morti, e farlo non all’interno di strutture preposte e al chiuso come noi occidentali, è dunque una tradizione antichissima e consolidata nel Paese di Gāndhī, che nulla ha a che fare con l’emergenza Covid (al contrario, in caso di epidemia gli hindū seppelliscono i corpi).
E’ d’altro canto difficile pensare che un gigante di 3.287.263 km² per quasi 1 miliardo e 400mila abitanti, con complessità drammatiche e circa 28 mila decessi quotidiani, possa andare in tilt a causa di 2000 morti in più in un giorno distribuiti sull’intero territorio nazionale, al punto da non saper dove sistemare i cadaveri.
Senza dubbio Nuova Delhi non può affidarsi ad un sistema sanitario evoluto e un’esplosione epidemica potrebbe rappresentare un grave problema, ad ogni modo si ha l’impressione che certe immagini vengano usate (come già fu con quelle delle “fosse comuni” e delle file di bare in Brasile, in realtà antecedenti l’epidemia) per far leva sull’emotività, rafforzando la narrazione emergenziale.
Negli anni della Prima Repubblica si diceva che il PCI riempiva le piazze mentre la DC riempiva le urne. Alla prova dei fatti, quella che conta, la “maggioranza silenziosa” di memoria nixoniana stava insomma con la “balena bianca”. L’impegno declinato nella protesta può, volendo spiegare meglio il concetto. alterare la percezione della realtà e delle cose, perché se è vero (e qui si torna ad un “refrain” caro allo Scudo Crociato e più in generale ai conservatori) che mille persone scendono in piazza, è altrettanto vero che il resto della gente, cioè molta di più, sta a casa.
Chi pensa che qualche iniziativa contro le restrizioni, qualche tafferuglio in questa o quella città italiana ed europea e lo sdegno sui social siano la spia rivelatrice di un nuovo ’48 contro le classi dirigenti più “chiusuriste”, pecca quindi di ingenuità, almeno a nostro giudizio. Si tratta infatti di “vocal minorities”, di minoranze rumorose, mentre il grosso della popolazione è tenuto a freno e condizionato da un’incessante e pervasiva comunicazione/propaganda che usando mezzi mediatici potentissimi e sofisticati fa leva sulla più forte e subdola delle paure, ossia quella della morte, per noi e/o per i nostri cari (questo specialmente in contesti con un elevato grado di benessere e disabituati alle sofferenze).
Il dissenso e il malcontento sono, è vero, aumentati e destinati ad aumentare, ma senza superare e vincere quella barriera psicologica rafforzata e puntellata giorno dopo giorno e minuto dopo minuto da chi, in buona fede o in malafede, ha interesse a mantenere alta la tensione e i dispositivi di “contenimento” emergenziali. Una situazione oltremodo complessa e drammatica, imprevista e imprevedibile, che in linea teorica potrebbe non avere fine.