Illuministi, rivoluzionari e operai: la xenofobia dietro il “mito”

A dispetto di un certo cliché agiografico, anche gli llluministi francesi sposarono alcune idee gravemente e pericolosamente oscurantiste. Forse influenzati dalla reazione protezionista e nativista determinata dall’aumento dell’emigrazione poco qualificata, si spinsero ad esempio ad attribuire a presunti vulnus genetici il motivo dell’arretraezza di certi stati italiani e dell’incapacità degli italiani di creare uno stato unitario. Pregiudizi che si rafforzarono, e addirittura trovarono un’affermazione giurisprudenziale (si pensi alle Cartes de sûreté), in epoca rivoluzionaria (il 1789 è ugualmente oggetto di un’apologia anti-scientifica).

Insofferente alla concorrenza dei lavoratori stranieri e condizionato dal clima di rivalità con l’Italia dovuto alle dispute coloniali, persino il movimento operaio francese si segnalò, e questo invece nell’800-‘900, per un violento orientamento xenofobo e anti-italiano (già nel ‘500 il Terzo Stato si era alleato con la Lega Cattolica in funzione anti-italiana)*.

Nell’immagine: la ghigliottina, simbolo del regime del Terrore giacobino, in una caricatura inglese d’epoca.

*Nel 1588, la Lega Cattolica francese e il Terzo Stato si allearono in una vera e propria campagna italofoba chiedendo che le cariche dell’amministazione statale non venissero più affidate a stranieri e affiggendo cartelli con messaggi anti-italiani nelle strade di Parigi. L’azione era da ricondursi al clima di forte intolleranza verso gli italiani, determinato a sua volta dalla presenza dei nostri connazionali ai vertici della politica e dell’economia francesi (già dal 1200 agli italiani veniva rimproverato di aver devastato le casse dello Stato francese con le tasse)i, al ruolo di vertice di Caterina de’ Medici ed al confronto tra cattolici e ugonotti.

E’ da notare che fu la Monarchia, cioè quello che viene spesso inteso come il massimo emblema della reazone, ad opporsi alle richieste italofobe, almeno fino all’affaire Concini qualche decennio più tardi.

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Da dove nasce l’odio per Silvia Romano

(Di CatReporter79)

Con il suo impegno umanitario e sociale, con la sua allergia sensoriale e il suo bagaglio empatico, Silvia Romano va a scontrarsi con due aspetti peculiari del pensiero reazionario e della psicologia dell’ “uomo qualunque”: il razzismo (stava aiutando gli africani) inteso nella sua accezione meno elaborata, più istintuale e primitiva, ossia la paura dell’Altro, e il laissezfarismo inteso come abulia emotiva e mentale, come disimpegno intimorito e pecoreccio. A questo va ad aggiungersi l’ostilità politica verso le ONG, viste (a torto) come contigue alla sinistra.

Silvia Romano e chi, come lei, aiuta gli altri a rischio della propria vita e della propria incolumità, è e resta in ogni caso un essere umano di qualità infinitamente superiore a chi, adesso, la critica e deride con un “se l’è cercata”.

Trattamento molto meno ostile per Desirée Mariottini e Pamela Mastropietro. In questo caso la loro tossicodipendenza scivola in secondo piano, dal momento in cui i killer sono extracomunitari e le due vicende possono quindi prestarsi ad una strumentalizzazione di tipo politico.

Appunti di comunicazione – L’angelo biondo in pericolo e il razzismo inconsapevole

( Di CatReporter79)

“Missing white woman syndrome” (Sindrome della ragazza bianca scomparsa); con questa espressione della giornalista afro-americana Gwen Ifill (1955-2016,) viene indicata l’abitudine dei media, del pubblico e degli investigatori statunitensi, canadesi e britannici, a rivolgere una maggiore attenzione ai casi di scomparsa che vedono coinvolte giovani donne bianche, solitamente bionde e appartenenti al ceto medio-alto.

Uno degli esempi usati a sostegno della MWWS è la disparità di attenzione con cui fu trattata la scomparsa della soldatessa Jessica Lynch (bianca e bionda) rispetto a quella delle sue commilitoni Shoshana Johnson (afro-americana) e Lori Piestewa (di umili origini e madre single). Tutte e tre erano cadute nella stessa imboscata, durante la Guerra in Iraq il 23 marzo 2003.

La sindrome non riguarda, tuttavia, solo le persone scomparse, ma anche quelle in situazioni più generalmente critiche. A tal proposto viene citato il caso, a noi familiare, di Amanda Knox, che secondo alcuni osservatori statunitensi avrebbe beneficiato di un trattamento assolutamente favorevole da parte dei media, del pubblico e delle istituzioni del Paese.

Perché è giusto dire “non sono razzista, ma”. Il totalitarismo irrazionale del pensiero unico.

Consacrata come la dimostrazione e il palesamento di un razzismo subdolo ed inconscio, la formula “no sono razzista, ma” risponde, in realtà e molto spesso, all’esigenza di sottrarsi ad una forzatura concettuale e ideologica che impone un pensiero uniformante e idealizzante l’immigrato o lo straniero, al di fuori del quale si è accusati di pregiudizio xenofobo.

Perché dire “Italietta” equivale a dire “sporco negro”.L’equivoco del razzismo “endogeno”

Non è infrequente imbattersi, sulle piattaforme virtuali come nei consessi “reali”, in commenti ad episodi di razzismo a loro volta ad elevato dosaggio di pregiudizio biologico. Protagonisti, individui che, nell’intento di manifestare il loro sdegno all’ìntolleranza, finiscono con il palesarne, nella stessa misura di coloro i quali vengo censurati, insieme ai loro atteggiamenti.

Se, ad esempio, l’episodio razzista accade in Italia, costoro si lanceranno in “tackle” sulla comunità e la cultura italiane, in modo generico e generalizzante, attraverso schemi comportamentali e registri comunicativi che respingerebbero con sdegno e vigore, se adottati nei confronti e ai danni di realtà altre e differenti.

Si tratta di una forma di razzismo “endogeno”, la cui pericolosità sociale non viene percepita in tutta la sua dimensione (sfuggendo anche alla classificazioni delle scienze storiche e sociali) in quanto chi la pone in essere lo fa, appunto, contro sé stesso, contro il proprio humus etnico ed ambientale.

Il razzista “endogeno”, inoltre, sarà persuaso di aver compiuto un gesto di elevata qualità civica e civile, screditando il proprio elemento comunitario in quel momento visto come contrapposto ad una categoria solitamente colpita dalla discriminazione.

Questo, renderà la sua correzione ancora più complessa e disagevole.

Adel Smith: come un razzista e intollerante divenne un campione delle libertà laiche.Astuzie e scorretteze del circo-circuito mediatico

Muore Adel Smith, lottò contro crocifisso in luoghi pubblici – La Repubblica

Morto Adel Smith, lottò contro i crocifissi nei luoghi pubblici – Il Secolo XIX

Islam: è morto all’Aquila Adel Smith lottò contro crocifissi nelle scuole – Il Messaggero

È morto ieri a 54 anni Adel Smith, famoso per campagne e presenze televisive
contro crocifissi e simboli sacri nei luoghi pubblici italiani -Il Post

Morto Adel Smith, il «nemico» del crocifisso nei luoghi pubblici – Il Corrirere della Sera

Questi, i titoli utilizzati da alcune delle maggiori testate giornalistiche italiane per i loro pezzi sulla morte di Adel Emiliano Smith, il teologo musulmano deceduto due giorni fa pressso l’ospedale San Salvatore dell’Aquila a causa di un male incurabile.

Potremo notare come i titoli opzionati suggeriscano l’immagine di un laico, impegnato, al pari di tanti altri, in una campagna di “secolarizazione” della società, secondo il modello delle più evolute democrazie occidentali.

Attuando un’operazione di scavo più apoprofondita sulla vita e l’opera di Smith, potremo tuttavia renderci contro di quanto le cose non stiano e non stessero esattamente in questo modo; il presidente dell’ Unione musulmani d’Italia lottò, si, contro l’ostensione della croce nei luoghi pubblici (prevista dalla nostra legge soltanto nelle scuole elementari, medie e nei tribunali) ma lo fece ben lontano dalle traiettorie del rispetto e del buongusto, gettando, tra le tante, il crocifsso da un ospedale e definendo il Nazareno “un morticino”.

In questo modo, Smith non soltanto ferì la sensibilità di milioni di fedeli (italiani e non italiani), ma adottò un comportamento di tipo colonialistico; essendo egli un egiziano, la pretesa di rivoluzionare, alterare e defenestrare (in ogni senso) le tradizioni di una comunità ospitante si inseriva infatti in un’ottica di dominio, nel caso di specie dell’elemento islamico su quello cristiano e italiano (il Cristianesimo è la religione più diffusa nel nostro Paese).

La stampa, quindi, ha scelto di alterare il fatto, a scopo ideologico, utilizzando una serie di astuzie che, in ultima analisi, fanno un torto alla deontologia professionale ed al lettore.

Buon viaggio campione…

Con Rubin “Hurricane” Carter se ne va un ottimo interprete della Noble Art ma, prima di tutto, uno straordinario testimone della lunga (e mai conclusa) battaglia per la democrazia e l’accettazione. Monzon e Benvenuti gli avrebbero chiuso le porte verso la corona, mentre la polizia gli aprì quelle di un carcere federale, ma nessuno ha potuto togliergli il coraggio, la dignità e l’alloro tra i giusti. RIP, Champ. Thanks, Bob.

Zakir Hossain

Lo sdegno ed il comprensibile senso di colpa collettivo per la morte del giovane Zakir Hossain, assassinato da mano vile (e per adesso anonima) a Pisa, non dovranno, tuttavia, comprimere la capacità di analisi razionale, portandoci ad assurgere l’italiano che ha sferrato il pugno omicida ad emblema di un popolo e di un Paese. Il rischio è e sarà, in caso contrario, quello di sconfinare in un razzismo diverso nella forma (contro gli italiani) ma non nella sostanza.

Alla famiglia del povero Zakir, lavoratore e persona perbene, va il mio cordoglio, come uomo e come cittadino italiano.

Dopo la morte di Zakir, la città si stringe intorno alla comunità bengalese

Pas,cui prodest?(Il paleofemminsmo che uccide)

In una nota stampa, la consigliera regionale tabacciana Maria Luisa Chincarini commenta la sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha ribaltato la decisione del Tribunale dei Minorenni di Padova che dispose, in ragione di un sospetto caso di PAS, l’affidamento di un bambino alla tutela del padre, revocandolo alla madre insieme alla patria potestà. Chincarini si spinge oltre, molto oltre, arrivando a negare la fondatezza scientifico-statistica della PAS, e questo sulla scorta di un impianto documentale del tutto superficiale, lacunoso e affidandosi ad un registro semantico smaccatamente inadeguato alla problematica. Cui prodest? A chi giova?, si chiedeva Seneca? E qui, la nostra indagine si imbatte nel cardine e nell’atomo della “quaestio”; la consigliera è donna, e la PAS, nell’80% dei casi, ha come responsabile primo e sviluppatore il genitore affidatario, il quale, ancora, nel 90% dei casi è donna. Chinchiarini chiude la nota auspicando la centralizzazione degli interessi del minore (“…il nostro auspicio, infatti, è che la sentenza della Corte di Cassazione faccia da apripista per i tanti casi di affidamento ancora irrisolti affinché via sia un vera tutela dei diritti e della volontà del minore..”), ma in realtà, la sua è squisitamente una crociata di genere a trazione misandrica, volta non già agli interessi del soggetto realmente debole ed indifeso, ovvero il bambino, ma a quello della comunità sessuale cui appartiene. Cui prodest? Giova a lei, al suo genere (o almeno questa è l’intenzione); che importa, nella sostanza, del beneficio del piccolo? L’interesse di pentola prevale sulla ragione morale e sul buonsenso, con il bambino che si vede penalizzato due volte, senza possibilità di difesa ed opposizione alcune, stretto tra le morse di un torchio che ha da un lato il volto della follia più revanscista e frustrata, dall’altro quello di un politicamente corretto malato, irrobustito da una cintura culturale mitologica di stampo mariano-mammista sublimante il ruolo della donna e della madre. Il minore, non dimentichiamolo, non dispone del diritto di voto, di conseguenza non ha un potere contrattuale specifico da mettere in campo per far valere le proprie esigenze e rivendicazioni. Siamo noi adulti a doverci far carico dell’onore e dell’onere dei suoi interessi. Trasformarlo in un ariete per sfondare la porta dell’assennatezza così da raggiungere i nostri propositi particolari, è un atto criminale, prima ancora che irresponsabile. Come non mi stancherò mai di ripetere, la strada per porre fine o rimediare ad ad un torto non passa attraverso la realizzazione di una disparità in senso opposto. In questo caso, il messaggio che passa, sottotraccia ma a ventaglio, è la classificazione degli esseri umani sulla base di una gerarchia genetico-biologica in senso qualitiativo assegnante al genere femminile il primato. Il modus cogitandi atque operandi non diverge, nel metodo e nel merito, dal razzismo classico e dalla biopolitica nazista.