Berlusconi e l’amico Erdogan, Erdogan e l’amico Putin. L’etica dei gasdotti.

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Oggi percorso da uno scomposto sentimento anti-turco, il movimento d’opinione conservatore italiano sembra dimenticare come l’amicizia con Recep Tayyip Erdoğan sia stata uno dei punti fermi della politica estera, economica e geo-strategica di Silvio Berlusconi e dei suoi governi.

Questo, è bene sottolinearlo, contribuendo all’affossamento di progetti come il Nabucco*, il gasdotto voluto per ridimensionare la dipendenza energetica europea da Mosca, a vantaggio del South Stream, per adesso abbandonato ma concepito da Putin come asse portante della strategia energico-politica russa.

La Turchia è inoltre un partner fondamentale anche per il Kremlino, in ragione del suo ruolo di secondo cliente di Gazprom e di progetti come il Turkish Stream, una pipeline che, aggirando l’Ucraina (facendo di Ankara una hub per 63 miliardi di metri cubi di oro blu), toglierebbe molte castagne dal fuoco ai russi.

*da qui, il riferimento alla narrazione biblica

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La destra italiana, Berlusconi e quei 20 anni da cicala.

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Il conservatorismo italiano è stato, per un ventennio, euforizzato dalla figura di Silvio Berlusconi, in ragione dei successi dell’allora Cavaliere e dell’attrazione che, da sempre, le destre subiscono dinanzi al carisma e al decisionismo autoritario. Questo, tuttavia, li ha imprigionati in un limbo, politico e culturale, impedendo loro quell’evoluzione in senso collegialistico e quella maturazione che, invece, la sinistra ha costruito negli anni.

Oggi che la parabola dell’arcoriano sembra nella sua fase conclusiva, la destra si trova a dover (ri)partire da zero, disabituata alla prassi della democrazia interna (ad esempio le primarie) e sprovvista di un’alternativa moderata ed europea al populismo salviniano.

Uno scenario previsto prevedibile e preconizzato dagli osservatori più razionali, anche e soprattutto negli anni della piena enfasi berlusconiana.

ll “peccato originale” di Silvio Berlusconi

L’Italia che vide l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi (1993-1994) era un Paese che stava sperimentando una della fasi di maggior cambiamento della sua storia unitaria. Per l’effetto, sinergico, di elementi quali l’inchiesta “Mani Pulite” e la fine della Guerra Fredda (1945-1991/1992), dinamiche compresse per mezzo secolo si liberavano, i partiti che avevano retto e garantito gli ormai obsoleti imperativi yaltiani scomparivano o si aggiornavano, una nuova generazione aveva accesso alla guida dello Stato e la “società civile” tornava ad esprimersi, mediante piattaforme propositive quali comitati, liste referendarie, ecc.

Resuscitando un avversario/nemico ormai morto (il Comunismo) per catalizzare le forze conservatrici e dotarsi di una riconoscibilità ideologica, Berlusconi riportò la dialettica politica e il pendolo della storia nazionale indietro di 50 anni, rispolverando quel corredo di odi, esasperazioni, paure e rancori che sembravano ormai appartenere al passato ed infliggendo un colpo mortale all’ondata di rinnovamento che stava mutando la fisionomia del Paese.

Tra le sue colpe storiche (bilanciate da meriti che l’analista razionale non potrà negare o ridimensionare) questa è, a parere di chi scrive, la più grave ed eclatante.

Il berlusconismo non esiste. Ecco perché Matteo Renzi non è Silvio Berlusconi.

La comunicazione dai Romani a JFK.

La corsa alla Casa Bianca del 1960 tra John Kennedy e Richard Nixon rappresentò un evento importante e fondamentale non soltanto per il suo significato politico ma anche perché vide, per la prima, volta un confronto televisivo tra i candidati (il primo dibattito “presidenziale” in assoluto fu nel 1858 tra Abraham Lincoln e Stephen Douglas).

Kennedy, più fresco, più giovane e più intraprendente, giocò le sue carte migliori assicurandosi la vittoria davanti alle telecamere, sbaragliando un Nixon apparso al contrario impacciato, stanco e con una cattiva cera (si mormora gli avessero consigliato un dopobarba dozzinale che lo fece sudare).

La tv diventava quindi non solo un “medium” ma un attore principale nella comunicazione politica, sfruttata in modo magistrale negli anni a venire da Bob Kennedy, Ronald Reagan, Bill Clinton ed altri, che ne utilizzarono il potenziale adattandolo alle loro differenti opzioni, strategie ed esigenze.

Non è con l’irruzione della tv, ad ogni modo, che il “contenitore” diventa importante e fa il suo ingresso nelle dinamiche del consenso; è già in epoca romana, infatti, che si hanno le prime forme di propaganda organizzata con gli “Acta Diurna” , e il ricorso agli artifici della promozione conobbe già un’efficacissima diffusione ai tempi delle Crociate, per iniziativa della Chiesa.

Il francese Gustave Le Bon (1841 – 1931), tra i padri della sociologia, faceva inoltre notare come fosse la forma, ancor prima della sostanza, la vera forza dell’ “animale politico”, forma che doveva essere semplice, astuta, tesa a toccare l’istintualità delle “folle” e non la loro intelligenza razionale. Per Le Bon, ad essere decisivo era il “prestigio” di un leader”, laddove “prestigio” indicava la sua capacità di fascinazione, immediata e diretta, al di là delle argomentazioni. Con l’avvento della fotografia, prima, della radio e della cinematografia, poi, ecco che la “parola” del capo diviene la “voce” del capo e poi il “corpo” del capo, in un crescendo ed in un evolversi di seduzioni istintuali che ha trovato e trova il suo acme con la televisione, dalla seconda metà del ‘900 in poi.

Berlusconi, dunque, ha soltanto introdotto ed importanto un modo di far politica, aggiornato ai tempi, che era già consolidato in altri paesi, quello stesso modo che oggi Renzi sta facendo proprio. Tuttavia, la scarsa offerta televisiva che per anni ha caratterizzato, penalizzandolo, il panorama mediatico italiano, la stagnazione generazionale della nostra classe dirigente (la cosiddetta Prima Repubblica ha visto il dominio cinquantennale di figure pre-televisive, nate nei primi anni-decenni del secolo XXesimo) e la paura , retaggio del periodo fascista, che una certa fetta dell’opinione pubblica italiana ha della figura “forte” , ha contribuito e contribuisce a creare e sedimentare un clima di sospetto intorno all’ex sindaco di Firenze, bollato, appunto, come un semplice megafono, un ambasciatore del nulla, un prodotto del berlusconismo.

Al contrario e come abbiamo avuto modo di vedere, Renzi è, come lo era il tycoon di Arcore, soltanto il prodotto di una politica nuova, non necessariamente vacua e dannosa, che è anche una cultura nuova, che è anche un mondo nuovo. Piaccia o meno.

Il “rinnovamento” di Giorgia Meloni

Scrive Giorgia Meloni sul suo spazio Facebook, a proposito dell’assoluzione in Appello (il processo non si è ancora concluso) di Silvio Berlusconi:

“L’assoluzione nel processo Ruby rappresenta una vittoria per Silvio Berlusconi, che di fronte alla giustizia ha dovuto difendere prima di tutto la sua onorabilità. Per questo non posso che rivolgergli le mie congratulazioni ed esprimergli la mia vicinanza. L’auspicio è che voglia utilizzare la forza che questa sentenza gli restituisce per sostenere una nuova fase del centrodestra, raccogliendo e rilanciando l’appello di Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale e di tutti coloro che lo hanno sottoscritto per celebrare primarie di coalizione e rifondare un centrodestra credibile, capace di dare risposte agli italiani e alternativo alla sinistra.

In buona sostanza, la 37enne Meloni, “fuggita” a suo tempo dal partito berlusconiano (all’epoca, il PdL), affida ad un 80enne pregiudicato, plurinquisito , incandidabile e ormai condannato ad una parabola discendente irreversibile, le redini e il rinnovamento del centro-destra italiano.

“In praetoriis leones, in castris lepores”

Mentana: Epic fail!

Contrattando e discutendo i tempi e, soprattutto, i modi dell’intervista al leader del Movimento Cinque Stelle, Enrico Mentana è venuto meno, ancora una volta, a due dei principi guida del giornalismo e della sua deontologia: la ricerca della “verità” e dell’ “essenzialità” (Carta dei Doveri del 1963). Il cronista assolve ad un compito di vitale importanza, che è quello di informare il cittadino su ciò che lo riguarda e ne regola l’esistenza; apparirà pertanto inaccettabile ed inconciliabile con il ruolo della stampa un atteggiamento di accondiscendenza verso un personaggio pubblico, in special modo se alla base di questa scelta vi sarà la ricerca del profitto e della visibilità.

Dalle “Regole per l’intervista” della BBC: “Non è corretto informare l’intervistato sulle domande che saranno formulate. Nel caso in cui l’intervistato rifiuti di rispondere, l’autore deve considerare l’ipotesi di continuare o interrompere. La reticenza dovrebbe essere indicata al pubblico”. E’, del resto, lo stesso che insieme ad altri due giornalisti (Emilio Fede e Giuliano Ferrara) partecipava ai briefing con il suo editore (Silvio Berlusconi) per pianificarne la “discesa in campo” nei primi anni ’90. Un Judith Miller in versione maschile

Silvio Berlsuconi e il “niet” di Strasburgo. A cosa serve l’ennesimo “coup de théâtre”

Benché consapevole dell’impossibilità di presentare la sua candidatura alle imminenti elezioni europee, Berlusconi ha tuttavia deciso di annunciarla pubblicamente (e su tutto il territorio nazionale) così da poter, ancora una volta, mettere in moto la macchina del vittimismo allorquando Strasburgo avesse posto il suo legittimo, prevedibile ed inevitabile divieto. In questo modo, l’ ex Cavaliere mira ad ottenere un duplice risultato, cercando di screditare chi gli ha “impedito” una prima volta di candidarsi (la magistratura italiana) e chi glielo ha “impedito” una seconda (l’UE), cavalcando, nell’ultimo caso, la poderosa ondata di antieuropeismo populistico che sta caratterizzando l’attuale momento storico.

La stessa cosa si potrà affermare a proposito dell’autosospensione dalla Federazione dei cavalieri del lavoro. L’ex Premier sa che il titolo gli sarebbe stato revocato a causa della condanna ed allora cerca di calare l’asso del gesto sprezzantemente nobile e dignitoso.

Sul “colpo di stato” italiano del 2011

Memorandum per chi, tra i supporters del Cavaliere, continua a bollare come “colpo di Stato” l’insediamento del Prof. Mario Monti a Palazzo Chigi, nel novembre 2011.

1: In Italia (come nella quasi totalità dei Paesi occidentali) il premier non viene eletto e confermato dal popolo bensì dal Parlamento, a maggioranza.

2: L’esecutivo guidato da Mario Monti ebbe, durante tutto il tempo della sua esperienza storica, la fiducia ed il sostegno del centro-destra, all’epoca maggioranza in entrambe le Camere.

Un piccolo “cadeau ” alla provocazione: o non c’è stato nessun golpe oppure, in caso contrario, Berlusconi ne è l’autore ed il protagonista. Delle due, l’una.

P.s: la nomina di Mario Monti fu caldeggiata anche dal leader del M5S, Giuseppe Piero Grillo.

Le ministre di Renzi e quelle di Berlusconi: ecco perché non sono la stessa cosa

Mettendo sullo stesso piano la scelta di Renzi e quella di Berlusconi di nominare ministre dal gradevole aspetto esteriore, la propaganda ostile al nuovo governo mette in campo una strategia a tutta prima elementare ed immatura, ma proprio per questo particolarmente efficace, penetrante ed insidiosa.

Al Cavaliere non si contestava, infatti, la giovane età oppure l’avvenenza delle collaboratrici e delle candidate opzionate, bensì la loro totale mancanza di esperienza e requisiti per i delicatissimi incarichi ai quali venivano proposte ed i boccacceschi criteri di scelta alla base del loro posizionamento nelle liste elettorali od in questo o quel dicastero.

Attraverso il metodo della “semplificazione” e della “proiezione ed analogia”, gli avversari del nuovo Presidente del Consiglio cercano tuttavia di disinnescarne, da un lato, la credibilità di Matteo Renzi e del suo staff, e dall’altro di alleggerire il peso del giudizio morale sul capo del centro-destra (“lo fanno tutti”).

Feltri, Meredith e Sollecito.Quando la cronaca nera diventa un Cavallo di Troia contro la magistratura

Senza tema di smentita inaccettabili sotto il profilo morale, civile e deontologico, le dichiarazioni di Vittorio Feltri a proposito di Meredith Kercher durante la recente intervista a Raffaele Sollecito (“Ma perché avresti dovuto ammazzare Meredith? Te la volevi scopare? Non era nemmeno un granché ), sono tuttavia delle vere e proprie “password” per per la lettura e la comprensione dei meccanismi alla base del fare informazione nel nostro Paese.

Esse si muovono infatti e sostanzialmente attraverso due direttrici: una commerciale e l’altra, la più importante e preponderante, politica. Feltri è innocentista, e lo è perché un “giallo” nel quale il killer sia stato smascherato ed assicurato alla giustizia dà meno carburante all’informazione rispetto ad un caso ancora da codificare, potenzialmente gravido di piste ed ipotesi di ogni sorta, liquido amniotico e fluidificante per la speculazione giornalistica più libera (e redditizia). Ma lo è, anche e prima di tutto, perché asserire, sostenere e propugnare l’innocenza di un indagato significa sottintendere implicitamente vi sia stato un errore giudiziario. Una persecuzione, se esso si trascina nel tempo e con lunghe indagini (“Potevi restare a Santo Domingo invece che tornare in Italia che è una schifezza”. “Io non ho apprezzato il fatto che è tornato perché in Italia se vogliono fotterti, ti fottono. Nel dubbio mi tolgo dalle palle”).

L’intento sarà quindi screditare la magistratura (nonostante nei casi di “nera” le indagini vere e proprie vengano effettuate dalle forze dell’ordine e dai loro apparati), cucendole addosso l’immagine impopolare di un organismo forcaiolo, , nemico dei cittadini e maldestro, così da depotenziarne l’operato quando essa rivolge le sue attenzioni a Silvio Berlusconi. ( le testate con le quali Feltri collabora sono di proprietà dell’ex Presidente del Consiglio).

Una rapida ricognizione sui più recenti casi di cronaca (Perugia, Garlasco, Cogne, Erba, Via Poma, Unabomber, ecc), dimostrerà infatti come giornali e networks vicini al centro-destra siano, quasi puntualmente, dalla parte degli imputati. Molto più di una petizione di principio.