Il giornalismo americano cane da guardia della democrazia?Breve panoramica di un falso storico

Esiste, anche in ambito giornalistico, la convinzione secondo cui la stampa americana sia un faro ed una stella polare, un esempio al quale rifarsi e da seguire affinhé il cronista sia o torni ad essere un “watchdog” (cane da guardia) e non un barboncino da salotto confortato dalle carezze di questo o di quel potente. Si tratta, ad ogni modo e a ben vedere, di un “must” scollato dalla testimonianza storica e documentale, alimentato, essenzialmente, dal concorso sinergico di tre fattori:

1) la continuità democratica del mondo anglosassone

2) la vittoria nella I e II guerra Mondiale e la collocazione in antitesi al blocco comunista

3) il potere derivante dalla grande distribuzione commerciale di cui, soprattutto il cinema stars&stripes, può godere.

Redazioni cariche di reporter d’assalto alla Hoffman e Redford con le maniche tirate su, la cravatta allentata e pronti a dare la caccia a questo od a quel procuratore, a questo od a quel potente, sono un’affascinante elaborazione filmica e televisiva, una dilatazione, in senso agiografico e mitologico, di un mondo ben diverso e più complesso.

Entrando più nel dettaglio, potremmo suddividere la storia del giornalismo americano in 4 fasi: quella dei pionieri ( “muckrackers” e “penny press”), la nascita della propaganda, la Sidle Commission e l’ informazione “embedded ”, l’ ingresso dei grandi gruppi commericiali nelle redazioni e l’ “infotainment”.

I Pionieri: a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, sorse negli Stati Uniti la categoria dei cosiddetti “muckrackers ” (“spalaletame”, da una definizione di Theodore Roosevelt), una pattuglia di cronisti che si occupava delle inchieste contro i grandi trust delle ferrovie, della borsa, dell’edilizia o, ancora, della condizione dei minori, delle donne , degli afroamericani e delle minoranze in genere. A questi coraggiosi narratori della verità, (Lincoln Steffens, William Shepherd, William Hard, Jacob Riis, per citarne soltanto alcuni), si aggiunsero editori come Joseph Pulizer o William Randolph Hearst, capaci di sfruttare le enormi potenzialità che invenzioni come il telegrafo potevano offrire alla stampa, in termini di numero di copie, qualità dell’impaginazione e taglio dei costi (fu in questo periodo che vide la luce la leggendaria “penny press”, la stampa d un centesimo)

Nascita della propaganda: è opinione comune sia stato l’affondamento del transatlantico “Lusitania” la molla dell’entrata in guerra degli USA a fianco delle potenze dell’Intesa nel 1917, ma è un dato soltanto parzialmente corrispondente al vero. L’Amministrazione Wilson, infatti, era già riuscita a convincere la recalcitrante opinione pubblica nazionale attraverso l’opera massiva e massiccia del “Committee on Public Information”, un organismo antesignano delle moderne PR guidato dal giornalista George Creel. Inoltre, nel 1918 il Congresso votò il “Sedition Act”, che vietava qualsiasi forma di opposizione al conflitto. Questi elementi (la rinascita e l’istituzionalizzazione della propaganda e l’ irregimentazione dell’informazione secondo i dispositivi legislativi), contribuirono alla fine del giornalismo d’assalto americano. Sconvolto da una simile manomissione dell’impianto democratico, uno dei padri del moderno giornalismo statunitense, Walter Lippman, nel suo “Liberty and News” gettò si semi del cosiddetto “giornalismo scientifico”, elaborando un vademecum che il cronista doveva seguire per sfrondare il suo lavoro dalle seduzioni e dagli inganni della propaganda, in modo da consegnare al lettore una narrazione il più obiettiva e deontologicamente corretta possibile.

Ingresso delle grandi corporations nei media : nel 1980, la finanza statunitense scoprì il grande potenziale che le piattaforme mediatiche potevano offrire in termini commerciali e pubblicitari. Fu così che colossi come la General Elettric, la Disney, la Twentieth Century Fox o, ancora, la Viacom, fagocitarono le maggiori testate cartacee e i maggiori canali audiovisivi. Effetto collaterale di questa operazione fu la nascita dell’ “infotainment” (“intrattenimento-spettacolo”), un genere di informazione variegato e popolare nato con lo scopo di cooptare il maggior numero possibile di spettatori (e quindi di acquirenti) senza badare alla qualità del prodotto. Da quel momento sarà, di conseguenza e in senso stretto, il privato a fare e a finanziare l’informazione. P.s: inoltre, questi grandi gruppi non possono permettersi un atteggiamento ostile verso il potere. Da qui il bisogno di limitare l’azione delle redazioni poste sotto il loro controllo.

Sidle Commission ed informazione “embedded”: dopo le disastrosa esperienza in Indocina e Grenada, il governo americano decise di dare vita ad un nuovo organismo di controllo che, in tempo di guerra , impedisse ai giornalisti di fare libera e critica informazione, così come avvenuto nelle fasi finali del conflitto con il regime di Hanoi e durante il blitz reaganiano contro lo stato caraibico (Operazione Urgent Fury). Fu allora che venne concepita la Sidle Commission (dal nome di uno dei suoi promotori, il generale Winant Sidle), un soggetto creato non per censurare la stampa di guerra bensì per legarla al potere, disinnescandone il potenziale, quindi, ma senza danneggiare l’immagine delle istituzioni facendole passare per illiberali. Nacque e si sviluppò quindi quella che il Senatore William Fulbright definì “la militarizzazione dell’informazione”; erano i vertici militari a fornire informazioni alla stampa ed a consentirle di seguire le truppe. In questo modo, gli inviati diventavano dipendenti dalle loro fonti (nel caso di specie governo ed esercito) e tra esse incastonati, “embedded ”, per l’appunto, sviluppando un rapporto fideistico che ne avrebbe azzoppato la libertà di movimenti e narrazione.

Una breve ricognizione sulla storia della stampa a stelle strisce, dimostrerà che, Watergate a parte (l’inchiesta ebbe comunque il suo principale motore negli apparato investigativi federali), i cronisti americani non hanno mai cercato di forzare le serrature dei tanti armadi contenenti gli scheletri nascosti dal loro Paese, a partire dagli omicidi dei fratelli Kennedy, di Martin Luther King, di Malcom X, dalla corruzione nelle realtà locali (specialmente a sud della Mason Dixon Line) , allo strapotere delle multinazionali, a progetti come l’MK Ultra, alle torture dei prigionieri nelle zone di guerra, agli errori giudiziari, ecc. ecc. A questo proposito è utile ricordare il totale appiattimento sull’ondata di revanscismo sciovinista seguito all’11 settembre e alle decisioni dell’amministrazione Bush o, ancora, il silenzio assordante sulla contestata elezione dell’ex Governatore del Texas, quando ad una rilevante porzione dell’elettorato ispano-americano della Florida fu impedito l’accesso al voto e non vennero effettuati i riconteggi delle schede in 18 contee dello Stato (il Governatore era Jab Bush, fratello del futuro Presidente). In quel frangente, il tanto decantato giornalismo americano insisteva soltanto affinché fosse proclamato un eletto, indipendentemente dalla validità della consultazione.

Non un “watchdog”, quindi, ma una colonna e un diffusore della “pluralistic ignorance”.

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La trave e la pagliuzza.

Il pregiudizio: genesi e rischi.

E’ prassi consolidata e comune l’assegnazione al pregiudizio di una dignità didascalica e normativa che, in realtà, esso è ben lungi dal possedere. Sprovvisto di qualsiasi aggancio cognitivo e documentale alla piattaforma argomentativa di riferimento (se non in virtù di acquisizioni di tipo stereotipato), non di rado si presenta anche come un modello di “abiezione dislocata”; attraverso la derisione e l’espulsione di un determinato segmento sociale ed antropologico reputato più debole e grottesco (stranieri, omosessuali, appartenenti a culture religiose o politico-partitiche differenti o, ancora, individui considerati meno colti per la brevità del loro percorso scolastico e/o per i loro errori ortografici), il detentore del pregiudizio attua una forma di protezione ontologica (consapevole od inconscia) di un sé in realtà fragile ed incerto.

Il caso della bambina bionda nel campo Rom; eziologia e fenomenologia del pregiudizio “buonista”.

Pregiudizio [dal lat. praeiudicium, comp. di prae- «pre-» e iudicium «giudizio»]: “Idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore (è sinon., in questo sign., di preconcetto): avere pregiudizî nei riguardi di qualcuno, su qualcosa”

Pur legato, nell’immaginario collettivo, a posizioni aprioristicamente negative, il pregiudizio descrive soltanto un orientamento basico privo di agganci alla realtà ed alla conoscenza. Può, quindi, contenere traiettorie negative come positive, in merito a questo oppure a quell’argomento.

Alcuni dei miei contatti apuani su Facebook stanno condividendo l’analisi, incapsulata all’interno di uno status, che un noto e stimato personaggio legato alla citta di Carrara ha voluto offrire in merito alla vicenda della bambina bionda ritrovata in un campo nomadi in Grecia . Il pezzo cerca di mettere a nudo, con acutezza e piacevole umorismo, alcuni dei luoghi comuni che offendono la vasta e variegata comunità Rom, in primis quello che li vuole e vorrebbe razziatori di bambini “bianchi” o, ancora, dediti soltanto al furto ed al crimine. L’autore pone, inoltre, l’attenzione sul pericoloso fenomeno della recrudescenza dell’odio etnico e culturale nei confronti dei nomadi, in Grecia, come conseguenza della ricerca di un capro espiatorio e di una valvola di sfogo da opporre alla crisi che sta attanagliando il Paese di Omero. Fin quei tutto bene, ma; il “ma” prende le mosse da una serie di errori che il Nostro commette, spinto, mi permetto, da quell’onnipresente buonismo ideologico che rischia di occludere ed occlude, nella maggior parte dei casi, la valvola del ragionamento scientifico, sereno ed imparziale.

; innanzitutto, l’autore virgoletta la parola “zingari”. Nulla di più sbagliato. Zingari e rom sono, infatti, la stessa cosa. Rom è soltanto il nome che gli zingari danno a se stessi e che deriva dal francese “romanichels”, a sua volta derivazione dello zingaro “uomo”-“rom”. Vi sono, inoltre, altre formule e diciture, come “gitani” (dallo spagnolo “gitanos”) o “gypsies” (dall’inglese “gypsie”), opzioni che riflettono la credenza secondo cui gli zingari (termine di origine bizantina) provenissero dall’Egitto (sono, in realtà, di origine indiana) ma che non descrivono o designano nessuna sostanziale differenza di tipo etnico, sociale o culturale.

; se è vero che la comunità zingara non si è mai macchiata, in Italia, del rapimento di un minore “bianco” (almeno non esiste letteratura recente a tal proposito) ed è vero che molti, moltissimi, dei suoi appartenenti hanno accettato lo stanzialismo, il lavoro e si comportano seguendo le traiettorie della legalità e dello stato di diritto, è altrettanto vero che una nutrita porzione del loro gruppo tramanda di generazione in generazione, attraverso i capi clan, la cultura del rifiuto del lavoro e della scolarizzazione, la pratica del furto e del nomadismo.

; l’estensore dell’ “articolo” pone l’accento sul fatto che anche in Italia, come in altri moderni ed avanzati Paesi del mondo occidentale, non molto tempo fa le famiglie più indigenti utilizzassero i loro bambini per chiedere l’elemosina. Si tratta di un esempio (involontario?) di “proiezione-analogia”, tecnica in uso alla propaganda politica. Nel caso di specie, però, si presenta come un’arma spuntata, questo perché il fatto che anche in Italia esistessero condizioni di grave disagio economico e sociale tali da condurre alla mortificazione dei minori, non giustifica in nessun modo il ricorso allo sfruttamento della questua infantile da parte dei genitori rom.

Comunque ed in ogni caso, dette comunità sono caratterizzate da un un inossidabile isolazionismo elitario (ad esempio vengono rifiutati i matrimoni “misti”, pena l’espulsione dal “clan”) nonché da una cultura orientata ad un retrivo sessismo-maschilismo che nega e preclude alle donne il lavoro e qualsiasi peso decisionale all’interno dei nuclei familiari.

Pur animato dalle migliori intenzioni, l’autore dello sfogo facebookiano si è quindi lasciato andare ad un “pregiudizio”, (appunto prae- «pre-» e iudicium «giudizio».). Nobilitante e cavalleresco, ma pur sempre un pregiudizio

Pregiudizi

Troppo spesso tendiamo ad attribuire al pregiudizio una dignità didascalica e una valenza paradigmatica che in realtà è ben lungi dal possedere. Il pregiudizio non fotografa, nasconde; non spiega, semplifica. Personalmente, non mi sento in imbarazzo per chi ne è vittima, bensì per chi ne è portatore e diffusore.