Antisemitismo di destra ed anti-israelismo socialista

Dove si trova il vero nemico di Israele e perché chi la difende deve riconciliarsi con la sinistra

L’antisemitismo “politico”, coincidente con quello “razziale”, ottocentesco-novecentesco, è prodotto e prerogativa del nazismo, del fascismo, delle loro derivazioni e , prima, ancora e nella sua fase storica e concettuale, della filosofia hegeliana, kantiana e fichtiana (Fichte, tedesco, arrivò a negare l’origine ebraica di Cristo, proponendo l’espulsione dei discendenti di Abramo dalle terre germaniche).

Il socialismo, al contrario, non soltanto non contempla il sentimento anti-ebraico nel proprio sistema etico e normativo, ma, anzi, lo rigetta, insieme alla gerarchizzazione razziale.

A questo proposito, gioverà ricordare come le comunità ebraiche guardassero, tra il XIX secolo e la prima metà del XXesimo, con speranza ed ammirazione al socialismo, e viceversa. Nel 1917, gli ebrei russi accolsero con favore l’Ottobre (prima delle persecuzioni staliniane), memori della durezza del trattamento riservato loro dal regime zarista, mentre l’URSS ebbe un ruolo chiave nella creazione dello Stato d’Israele. Ancora, una derivazione del sionismo si ispirava e si ispira direttamente al socialismo (sionismo “socialista”, di A.D.Gordon), mentre le comunità kibbutziane furono ideate ed organizzate sul modello comunitario e gestionale di quelle kolkoziane sovietiche.

L’anti-israelismo della sinistra, sebbene robusto e particolarmente visibile, non è e non sarà, quindi e salvo rare eccezioni, determinato da pulsioni di tipo antisemitico, bensì da una ventaglio di scelte squisitamente strategiche e contingenti:

-Israele è un Paese “occidentale” ed atlantico, tradizionalmente alleato (sebbene non manchino né siano mancati i momenti di tensione) degli Usa.

-Israele è un Paese “ricco”, la Palestina un Paese “povero” e terzomondista. Quindi, si assisterà ad una migrazione del concetto di “lotta di classe”, in un contesto, quello mediorientale, che ne riproduce le condizioni e gli elementi, a differenza del più evoluto Occidente.

Al contrario, l’anti-israelismo e il filo-palestinismo della destra radicale e neo-fascista, usualmente islamofoba ed arabofoba, è sarà conseguenza unica e sola del carico storico-dottrinale antisemita. Ma c’è di più: anche l’adesione alla causa israeliana da parte della destra “moderata” è , molto spesso, legata esclusivamente a speculazioni di tipo strategico (arabo-islamofobia, collocazione atlantica di Israele, ecc), ma quando il discorso si sposta e posa sulle responsabilità fasciste nella persecuzione degli ebrei e nell’Olocausto e sulle ricorrenze commemorative della tragedia, ecco che il registro comunicativo cambierà, facendosi ambiguo, relativizzante, se non apertamente ostile e respingente verso l’elemento ebraico, prima difeso con tanta decisione.

Questo perché il conservatorismo italiano, nella quasi totalità delle sue declinazioni, non ha mai conosciuto una sua Bad Godesberg, affrancandosi in questo modo dal portato mussoliniano (le dichiarazioni e le proposte di legge di molti dei suoi esponenti, tese alla rivalutazione del Ventennio, ne sono la testimonianza).

Pubblicità

“Libero”e Giacomo Matteotti usuraio e sovversivo

Una lezione di metodo: che cos’è la storiografia e come si fa. E come non si fa.

Il quotidiano “Libero” sceglie di ricordare la figura di Giacomo Matteotti con un articolo di stampo revisionistico particolarmente duro nei confronti dell’onorevole veneto e della sua memoria, e lo fa ricorrendo agli stralci di un libro dello “storico” Gianpaolo Romanato (Dottore in Filosofia) in cui Matteotti viene accusato di usura e di aver fomentato i segmenti più radicali e violenti della sinistra durante il cosiddetto “biennio rosso” (in realtà, Matteotti faceva capo all’ala più moderata del PSI, poi maturata, in epoca repubblicana, nel PSDI saragattiano).

Tuttavia, potremmo notare come né l’estensore del corsivo (tal Francesco Borgonovo) né il Romanato forniscano, a questo proposito , alcun elemento documentale verificato e verificabile (quindi certo), allontanandosi così dal principio dell’analisi storiografica su base logica e razionale (ricordiamo come la storiografia propriamente detta sia una scienza e non un’arte, una disciplina umanistica o dialettica, come invece, al contrario ed appunto, è la filosofia).

Entrando più nel dettaglio, il Romannato dice che Matteotti non si oppose al clima di violenza di quegli anni (al quale contribuirono anche le squadre fasciste) “per non perdere il rapporto con il suo elettorato polesano”. O, ancora, sulle tensioni che regnavano all’epoca nel Polesine, zona di provenienza di Matteotti: “I due maggiori leader, prima Nicola Badaloni e poi Matteotti, operarono per moderare tali spinte e incanalarle in un’azione politica organizzata e più disciplinata. Ma dopo la guerra, quando il conflitto si accese, Matteotti ebbe sempre meno spazio per le mediazioni, non avendo neppure più la sponda di Badaloni. È questa la fase, siamo nel cosiddetto “biennio rosso”, in cui Matteotti apparve in Polesine più un piromane che un pompiere. Altra era invece la linea che teneva a Roma, dove il confronto era dialettico e non “pugilistico”. Questa duplicità gli fu rimproverata da tutti i suoi avversari, liberali, cattolici e fascisti”.

Come appare evidente, le sue analisi patiscono l’assenza di ogni conforto probatorio, esibendosi come un mero florilegio di congetture e ragionamenti apodittici più vicini al relativismo filosofico che non al rigorismo della ricerca e dell’elaborazione storica. Del tutto inesistente la produzione speculativa in merito all’accusa di usura.

Dispiace dover constatare, ancora una volta, come una certa destra non riesca ad approdare ad una sua Bad Godesberg, 130 anni dopo la nascita di Benito Mussolini, come dispiace cerchi la manomissione storica mediante dilettantismi di questo genere.

“Sutor, ne ultra crepidam” (Ciabattino, non andare oltre le scarpe), dicevano i Romani.

Centro trattino sinistra.Unicità di un equivoco


Ibrido sprovvisto dell’umanitarismo utopistico del Socialismo classico come del pragmatismo delle socialdemocrazie europee, il PD ha molte “Bad Godesberg” sul suo cammino, prima a di affrancarsi dal timoroso provincialismo che individua il suo arché in quel fascio di vincoli e suggestioni storico-culturali connaturato alla realtà italiana.

Si continua a cercare il modello di riferimento nei democratici americani, in un esercizio demagogico che azzera le dissomiglianze , gigantesche, tra i due paesi. In ogni caso, l’esempio da seguire sarebbe quello dell’ ala NDC clintoniana e non di quella “liberal” obamiana.

Mutamenti

Con la sostituzione a sinistra delle vecchie declinazioni borghesi con l’anarchismo, il socialismo massimalista ed il comunismo, furono le destre (prima in parte rilevante contrarie ai processi risorgimentali) ad appaltare il ruolo di vessillifere del sentimento patrio. In anni, e in special modo dopo il 1945, nei quali dirsi nazionalista era considerata un’onta ed una patente di fascismo (le sinistre radicali rigettavano e rigettano l’identitarismo in nome dei principi dell’internazionalismo marxiano-marxista), soltanto il MSI, i monarchici, il PLI e la porzione più conservatrice della Democrazia Cristiana avevano il coraggio di manifestare la loro aderenza ai valori unitari e sciovinisti, non di rado a costo dell’incolumità individuale e della stessa vita. Il ventennale apparentamento con le (micro) leghe ha però determinato il risultato di snaturare ed in inquinare l’assetto ideologico di quella che fu la destra italiana, che ha trasferito il proprio afflato identitario dalla piattaforma nazionale a quelle locali, anche per effetto di un neo-revisionismo antiunitario vivo quasi esclusivamente nella pubblicistica astorica ma sempre più diffuso e vincolante. Alle icone risorgimentali e quindicidiciottiste, vengono quindi via via sostituiti feticci riconducibili ai “nemici”(Ad esempio gli austroungarici) combattuti dai patrioti di una volta (i nostri, i loro nonni e bisnonni), in un’ affannosa quanto grottesca ricerca di contiguità culturali e genetiche con circuiti non solo distanti ma tradizionalmente ed irriducibilmente antitetici alle genti italiche ed italiane.

L’est che non voleva i carri armati..ma nemmeno il liberismo

Le Destre si sono sempre “appropriate”, in Italia come altrove, delle rivolte e delle rivoluzioni avvenute nei Paesi d’oltrecortina, così come hanno fatto con le icone di quei fenomeni di protesta, in primis e ad esempio, Jan Palach. Questo in nome di una democrazia di cui sovente, è bene segnalarlo, si dimenticano, quando a calpestarla furono o sono tirannie di colori ed ispirazioni differenti. Da Berlino 1953, a Budapest 1956, a Praga 1968, ai moti operai di Polonia del 1970-1971, però, i movimenti antigovernativi non miravano ad una restaurazione del sistema capitalistico (che salvo rare eccezioni non aveva portato mai benessere o democrazia al di là dell’Elba e del Danubio), ma ad una rimodulazione della società in senso marxista-ortodosso. In poche parole, non era il libero mercato a fare da perno alle istanze dei manifestanti, ma un Socialismo teorico che si facesse prassi, privo del potere del partito, della polizia segreta e della direzione verticistica degli apparati: il Socialismo reale, in mano al popolo ed al servizio del popolo. Per rendercene conto, sarà sufficiente dare un’occhiata ai documenti di alcuni dei gruppi di lavoro che sorsero nei giorni frenetici dell’opposizione ai regimi ed al “grande fratello” moscovita (il documento delle “Duemila Parole” del Movimento Gioventù Rivoluzionaria cecoslovacco, il documento delle “Tremila parole” dei gruppi studenteschi jugoslavi, “Per un governo di consigli operai in Cecoslovacchia”, la piattaforma di Stettino, ecc). Non a caso si parla di “68 tradito” anche ad Est, e fu proprio questo fallimento riformistico a fare da propellente ai cambiamenti del 1989-1992.Anche in quella forchetta temporale, comunque, l’idea di abbattere lo status quo non era predominante. Il 17 marzo 1991, in un referendum, il 76,4% dei cittadini Sovietici votarono per il mantenimento dell’URSS in una veste riformata, e il progetto di unificazione della Germania prese piede e forma soltanto nella primavera del 1990.

Liberiamo i fantasmi di Bucarest

La credibilità della UE non si gioca soltanto sul tavolo delle trattative macroeconomiche o nel contenzioso strategico e militare con Mosca, ma a anche e soprattutto sulla situazione dell’infanzia in Romania, ed in particolar modo a Bucarest. Il “mondo libero” giubilò per la caduta del Socialismo nel 1989/1992, ma non ha saputo fornire ed “imporre” agli ex paesi d’oltrecortina le direttrici giuste per un passaggio graduale, omogeneo ed equilibrato dall’economia pianificata a quella di mercato. Il risultato è stato un gattopardesco cambio di faccia e di facciata dei vecchi potentati ed “apparatchik”, con l’ossificazione (o il peggioramento ) delle disuguaglianze sociali. Si discute di rating e redditività bancaria tra cristalli di Boemia e tappeti rossi, mentre migliaia di bambini sono e rimangono privi di documenti, spettri delle fogne costretti a succhiare colla per non sentire i morsi della fame, massacrati di botte negli orfanotrofi-lager. Il riassetto in senso “civile” ed umano di questa mostruosità moderna non richiederebbe certo uno sforzo titanico ed insostenibile, per la porzione occidentale del continente.