Covid, archeolingua e neolingua

« Nella nostra epoca, è largamente vero che la scrittura politica sia una pessima scrittura. Quando ciò non è vero, si scoprirà generalmente che lo scrittore è un qualche tipo di ribelle che esprime le proprie opinioni personali e non una “linea di partito”. L’ortodossia, di qualunque colore essa sia, sembra domandare uno stile imitativo e smorto. I dialetti politici rinvenibili nei pamphlet, negli articoli di fondo, nei manifesti, nei libri bianchi e nei discorsi dei sottosegretari variano certamente da partito a partito, ma sono tutti accomunati dall’impossibilità di ritrovarvi una figura retorica fresca, vivida, originale. Quando si ascolta un vecchio ronzino che ripete meccanicamente le espressioni familiari sul palco del comizio, come atrocità bestiali, tallone di ferro, tirannia sanguinaria, i popoli liberi del mondo, stare spalla a spalla, si ha spesso la singolare sensazione di non stare osservando un essere umano, ma una specie di marionetta, sensazione che diviene improvvisamente più forte nei momenti in cui la luce viene riflessa dagli occhiali dell’oratore, tramutandoli in dischi vuoti che non sembrano avere degli occhi al di là di essi. E non si tratta nemmeno di lasciarsi prendere dalla fantasia: un oratore che usa quel tipo di fraseologia ha già intrapreso la strada verso il tramutarsi in una macchina. I suoni adatti provengono dalla laringe, ma il cervello non è coinvolto nella stessa misura in cui lo sarebbe se stesse scegliendo le parole da sé. Se il discorso che sta pronunciando gli è familiare a furia di averlo ripetuto in continuazione, potrebbe essere quasi inconsapevole di ciò che dice, come quando si pronunciano le risposte in chiesa. E tale stato di consapevolezza ridotta, seppur non indispensabile, è ad ogni modo favorevole alla conformità politica. »

Ancora: «La grande nemica di un lingua chiara è l’insincerità. Quando c’è uno scarto ra gli obiettivi reali e quelli dichiarati, uno ricorre istintivamente alle parole lunghe e alle usurate frasi fatte, come una seppia che schizza inchiostro […] Quando l’atmosfera generale è malata, la lingua deve soffrire. »

Così George Orwell, nel suo saggio “La neolingua della politica”.

Benché abbastanza lontane nel tempo (1946), queste riflessioni di Orwell si adattano benissimo al contesto attuale, anche per quel che riguarda la comunicazione politica nell’ emergenza Covid. Formule come “il virus non concede deroghe”, “il virus è in espansione” (questa, a nostro giudizio, clamorosa), “ragionevolezza e prudenza”, “siamo all’ultimo miglio” (per quale ragione non usare il sistema metrico decimale?), nonché tutto l’arsenale metaforico e lessicale di importazione bellica, risultano fumose, ambigue, ingannevoli, inutilmente ampollose.

Quale sia il motivo di una scelta simile (pigrizia mentale? Ignoranza? Propaganda?), il risultato è confondere ancora di più il cittadino e allontanarlo da chi dovrebbe decidere della sua “sicurezza” (anch’esso un termine spesso usato in modo criptico o improprio).

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