La grande prevedibiltà della critica ad ogni costo

Immaginiamo un film straniero

Immaginiamo che il film in questione ottenga, tra i tanti riconoscimenti, anche un Premio Oscar , un Golden Globes, quattro European Film Awards , quattro Nastri d’argento , un Globo d’oro , una nomination al Festival di Cannes .

Immaginiamo che, sempre il suddetto film, contenga una critica corrosiva, sagace e sottilmente tragica di uno spaccato della società italiana.

Probabilmente, anzi, quasi sicuramente, grideremo al capolavoro.

Probabilmente, anzi, quasi sicuramente, attribuiremmo con soddisfazione alla pellicola anche un valore, un significato ed un significante normativo e didascalico dal punto di vista sociale, sociologico ed antropologico (“ecco come ci vedono, all’estero”) bollando come provinciale chiunque, tra i nostri connazionali, si sentisse offeso dall’impietoso ritratto.

Adesso facciamo un passo indietro.

Il film in questione ha, si, conquistato un Premio Oscar , un Golden Globes, quattro European Film Awards , quattro Nastri d’argento , un Globo d’oro , una nomination al Festival di Cannes . Ma è italiano.

Italianissimo.

Nessuna critica corrosiva, nessun raffinato e profondo lavoro di scavo e di indagine nella nostra e della nostra essenza più profonda.

No.

E’ “lento”, “non sa di niente”, è una “cagata pazzesca” (questa malinconicamente prevedibile. Si può fare di meglio).

L’origine di questa vocazione xenofila ed antinazionale tutta italiana va cercata nel trauma sociale ed antropologico causato dall’esperienza fascista che, insieme al portato dottrinale internazionalista della sinistra di ispirazione marxista-marxiana (massicciamente presente fio dalle ultime propaggini del secolo XIXesimo) ed a quello universalista del cristianesimo democristiano, ha confezionato e consegnato il clichè secondo cui l’esaltazione di tutto ciò che è patrio sia elemento ed attestazione di provincialismo, grettezza intellettuale ed obsolescenza sciovinistica, mentre la condivisione di tutto ciò che trova paternità altrove è o sarebbe sinonimo di elasticità mentale, lungimiranza e libertà di vedute. Di saper andare oltre, insomma.

Accade, però, che proprio nel tentativo di mostrarsi privo di pregiudizi, colui il quale abbraccia questo genere di posizioni finisca con il rivelarne e coltivarne, in questo caso in senso italofobo.

Provinciali, ma in modo diverso.

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Corvo Abdul non avrai il mio scalpo


Dagli anni ’50-60 del secolo scorso, il cinema produsse quello che fu e viene definito “Western Revisionista”. Dopo decenni in cui i ruoli delle giubbe blu (i massacratori) e dei nativi (i massacrati) erano stati invertiti, gli “indiani” trovarono finalmente giustizia catodica: i crimini dei pionieri venivano sottolineati e denunciati, così come gli stereotipi sulle tribù. Anche durante e dopo la Guerra del Vietnam, il cinema e la televisione americani si occuparono di denunciare il conflitto e le sue mostruosità, politiche come militari (eravamo nella dorata epoca pre-Siddle Commision), mentre adesso, l’apparato mediatico, cinematografico e culturale “yankee” è tornato a farsi benzina della macchina della “colonizzazione culturale”. Gli scenari sono cambiati, ma la contrapposizione manichea e bicromatica resta la medesima: il “nemico” sono musulmani ed Arabi, dipinti sempre, comunque ed in ogni caso come terroristi, violenti, barbari, selvaggi, in un turbinio di stereotipi tanto forti ed efficaci nella misura in cui riescono a farsi semplificazione. Dall’altra parte, invece, abbiamo i Marines, le nuove giubbe blu, i nuovi figli di Custer. Sono loro gli “eroi” nuovi di film, telefilm e serie tv. Le torture, la prevaricazione, i bombardamenti “intelligenti” di scuole ed ospedali, sono tornati ad essere un dettaglio, come qualche decennio fa.

“Oggi c’è una forma di potere molto più sottile che è sostanzialmente il controllo del pensiero, il controllo delle idee. Questo è molto pericoloso perché io quando ho controllato le idee di tutti coloro che sono subordinati al potere, costoro pensano come il potere, lo applaudono, lo vogliono, lo desiderano, lo adorano. Perché pensano come lui. E poi il secondo grado, ancora più pernicioso, è il controllo dei sentimenti. Ci sono delle trasmissioni televisive che insegnano ai giovani come si ama, come si odia, come ci si innamora, come ci si arrabbia. Quando io ho determinato il controllo dei sentimenti, io ho il potere assoluto. Perché non solo penso come mi hanno insegnato a pensare i mezzi televisivi, ma sento come loro desiderano io senta. A questo punto sono arrivato alla completa gestione del mondo, su cui opero.”

Quando Grillo parlava di pace…

“Scemo di guerra”; un piccolo capolavoro da inserire nella cineteca delle testimonianze contro la guerra di cui la Settima Arte ha saputo farci dono. La regia era di Dino Risi e il protagonista un magistrale Beppe Grillo nelle vesti di un giovane sottotenente di fanteria alle prese con un alto ufficiale demagogo, tirannico e fanatico della disciplina. Il film mette a nudo tutta la stupidità non solo della guerra ma anche e soprattutto del potere piramidale nella sua declinazione più ottusa e costringente. Un atto di accusa contro la gerarchia intesa come carcere del pensiero e della libera interazione. Chi avrebbe mai potuto immaginare che….