Corea del Nord: perché Cina e Russia non staccano la spina

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Dopo il lancio di un missile a lungo raggio da parte di Pyongyang (pochi giorni fa, la Corea del Nord aveva annunciato di aver sperimentato anche un’atomica all’idrogeno*) sono in molti, tra gli analisti, a chiedersi per quale motivo Pechino e Mosca, ovvero i maggiori sponsor e finanziatori di Kim, non abbiano ancora rotto con il regime del giovane dittatore, considerato una bomba ad orologeria anche per Russia e Cina.

Con un’estensione di 220 750 km², una popolazione complessiva pari 74 565 898 e il background economico-industriale di Seul, una Corea nuovamente unificata e democratica diventerebbe una potenza paragonabile al Giappone ma libera da quei legacci, conseguenze della sconfitta nella II Guerra Mondiale, che limitano Tokyo. Un insidioso “competitor” per i giganti russo e cinese, dunque, ma anche una sponda militare americana ai confini di casa.

Da qui, le motivazioni che spingono i due Paesi, memori di quanto accaduto nell’Est Europa dopo il 1989-1991, a tenere in vita la tirannia nord-coreana.

Una soluzione non facile
E’ tuttavia necessario ricordare anche la non facile praticabilità di qualsiasi tentativo volto alla distruzione del regime nord-coreano. Chiuso ermeticamente entro i propri confini e privo di qualsiasi esperienza democratica, il popolo non ha infatti gli strumenti per concepire una sollevazione, mentre uno scenario di tipo romeno (un golpe dall’interno con la complicità delle forze armate) è reso improbabile dal fatto che difficilmente i militari rinuncerebbero ai privilegi concessi loro dall’attuale status quo.

*Con un numero limitato di testate, la Corea del Nord è considerata un “junior nuclear state”

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La severità coerente della storiografia scientifica e la schizofrenia etica degli ideologismi

Ridimensionando, relativizzando o, addirittura, negando la tragedia italiana in Istria, Dalmazia e nella Venezia Giulia (le Foibe e l’esodo forzato dei nostri connazionali) in nome del fideismo ideologico radicale, il mistificatore (nel caso di specie quasi sempre collocato e collocabile nella sinistra massimalista) non soltanto pone in essere una falsificazione del contributo documentale ma cade, inconsapevolmente, nell’incongruenza dottrinale più evidente. Questo perché il comunismo nazionalista, identitario e imperialista promosso da leader quali Tito, Ceaușescu, Hoxha, Castro, Tôn Đức Thắng, ecc, si pone come formula altra ed antitetica rispetto ai principi dell’internazionalismo, dell’antistato e dell’inclusione sviluppati da Marx e da Lenin, rimodellando l’idea di comunità in senso più reazionario ed esclusivistico.

Proprio per aggirare questa inconciliabilità di fondo, l’ultrasciovinista Corea del Nord della dinastia dei Kim ha dato vita a partire dal 1955 allo Juche, una forma di comunismo “autarchico” e depurato dall’elemento internazionale ed ecumenico classico.

Ernesto Guevara de la Serna fu un autentico socialista (ed internazionalista), infatti Cuba e l’URSS decisero di sbarazzarsene, abbandonandolo al suo destino in terra boliviana.

Kim Jong-Un e la legittimazione della Corea

Ecco perché la Corea del nord non rappresenta una minaccia

La strategia messa in campo negli ultimi giorni da Kim Jong-Un attraverso il poderoso ricorso alla retorica bellicosa si muove e si snoda, essenzialmente,­ sulla linea di tre direttrici:

-la ricerca di una legittimazione interna per la sua leadership giovane ed ancora instabile

-l’esigenza di accattivarsi la potente casta delle forze armate

-il bisogno, assoluto ed imprescindibile­, di contrattare aiuti per un’economia stremata che allo stato attuale ruota intorno allo spaccio su larga scala di sostanze stupefacenti (i pusher in molti casi sono addirittura gli stessi diplomatici).

In questo, il giovane Kim ricorda Boris Yeltsin, costretto a mostrare muscoli che era ben lungi dal possedere (e l’Occidente lo sapeva, tanto da permettersi di affondare il Kursk ed attaccare la Serbia) per legittimarsi di fronte ad un popolo sfiduciato, ad un esercito frustrato dai tagli ed ottenere le iniezioni economiche di cui le casse russe, devastate da 75 anni di comunismo, necessitavano come di ossigeno. Non dobbiamo però dimenticare che la Corea del Nord, pur essendo “soltanto” uno “junior nuclear State” (dispone di 8 ordigni di potenza inferiore a quelli sganciati sul Giappone imperiale), contrariamente alla Russia di “Corvo Bianco” è un Paese del tutto cristallizzato (e cristallizzante­), impermeabile, anomalo e capitanato da un soggetto il cui reale equilibrio umano e politico deve ancora essere testato. Per questo, nonostante i “secret agreement” allo studio e al vaglio delle diplomazie, la crisi non va presa sottogamba.

Intanto, negli Stati Uniti si moltiplicano le teorie su come affrontare il problema. Chi chiede che le minacce della Corea del Nord vengano ignorate, come l’esperto di politica estera Doug Bandow. Bandow ritiene, infatti, che rispondere alle provocazioni equivarrebbe a conferire credibilità e legittimazione al regime di Pyongyang, in realtà molto debole e fragile, anche dal punto di vista militare. E’ invece opinione dell’esperto della Corea del Nord Gordon Chang che gli USA debbano rispondere in modo energico, sia per via diplomatica che militarmente, per evitare che l’immagine americana ne risulti indebolita e che il giovane e sprovveduto Kim possa abituarsi ad un Occidente troppo permissivista e, quindi, incapace di fronteggiare le sue velleità. Han Park, docente ed ex mediatore tra gli USA e Pyongyang, invita a trattare, in modo da dare a Kim quello che sta cercando, ovvero una legittimazione interna. Questo strada porrebbe fine, secondo Park, al clima di tensione che sta infiammando la penisola. Comunque, il fatto che non un soldato di Pyongyang o un’arma siano stati mobilitati o mossi al confine, dimostra quanto l’azione nordcoreana sia soltanto mero sfoggio di retorica e propaganda muscolare. E intanto, Russia e Cina stanno abbandonando lo scomodo e debole amico.

Le strategie di Kim Jong-Un e il fantasma di Boris Yeltsin

La strategia messa in campo negli ultimi giorni da Kim Jong-Un attraverso il poderoso ricorso alla retorica bellicosa si muove e si snoda, essenzialmente, sulla linea di tre direttrici:
-la ricerca di una legittimazione interna per la sua leadereship giovane ed ancora instabile;
-l’esigenza di accattivarsi la potente casta delle forze armate,
-il bisogno, assoluto ed imprescindibile, di contrattare aiuti per un’economia stremata che allo stato attuale ruota intorno allo spaccio su larga scala di sostanze stupefacenti (i pusher in molti casi sono addirittura gli stessi diplomatici).
In questo, il giovane Kim ricorda Boris Yeltsin, costretto a mostrare muscoli che era ben lungi dal possedere (e l’Occidente lo sapeva, tanto da permettersi di affondargli il Kursk ed attaccare la Serbia) per legittimarsi di fronte ad un popolo sfiduciato, ad un esercito frustrato dai tagli ed ottenere le iniezioni economiche di cui le casse russe, devastate da 75 anni di comunismo, necessitavano come di ossigeno. Non dobbiamo però dimenticare che la Corea del Nord, pur essendo “soltanto” uno “junior nuclear State” (dispone di 8 ordigni di potenza inferiore a quelli sganciati sul Giappone imperiale), contrariamente alla Russia di “Corvo Bianco” è un Paese del tutto cristallizzato (e cristallizzante), impermeabile e capitanato da un soggetto il cui reale equilibrio umano e politico deve ancora essere testato. Per questo, nonostante i “secret agreement” allo studio e al vaglio delle diplomazie, la crisi non va presa sottogamba.