Una tesi diffusa quasi unanimemente tra gli storici attribuisce a Jimmy Carter la responsabilità della crisi che portò i due blocchi alla cosiddetta Seconda Guerra Fredda, tra la fine degli anni ’70 e la prima metà del decennio successivo.
Secondo la teoria, l’America carteriana non sarebbe stata in grado di gestire l’avversario, sostituendo al vecchio “linkage” nixoniano (una diplomazia del compromesso ritenuta immorale dal suo successore) un indirizzo confuso ed altalenante che avrebbe incoraggiato Mosca ad un nuovo e inedito avventurismo contro gli interessi vitali dell’Occidente, inasprendo così le relazioni tra le parti.
Una simile lettura non potrà tuttavia che venire classificata e respinta come semplicistica e parziale; se, infatti, è indubbio che la politica di Jimmy Carter sia stata menomata dagli attriti, emersi soprattutto con le crisi angolana (1975), dell’ Ogaden (1977) e zairese (Shaba II, 1978) tra il “coldwarrior” Zbigniew Brzezinski (Consigliere per la sicurezza nazionale) e l’internazionalista liberale ed “africanista” Cyrus Vance (Segretario di Stato), è altrettanto vero che la scelta distensiva sovietica adottata verso Nixon non aveva mai risposto a criteri di tipo etico ma fu un artificio concepito da Brèžnev per arrivare alla parità strategica con USA e NATO evitando quegli scossoni che avevano invece contraddistinto gli anni kruscioviani (nel tentativo di mascherare l’inferiorità militare del proprio Paese, Chruščëv si lanciò infatti in una serie di provocazioni che portarono l’URSS al rovescio dell’ottobre 1962).
Le velleità proiettive sovietiche erano quindi già ben vive e presenti prima del 1976, pronte a sprigionarsi al di là delle scelte e delle posizioni della Casa Bianca.