Negli anni ’70 del secolo scorso, la politica estera sovietica conobbe una fase di inedito dinamismo. Forte del raggiungimento della parità strategica con gli USA (ottenuta grazie ad una politica di basso profilo nella seconda metà degli anni ’60, che rinnegava il precedente avventurismo kruscioviano ) ed approfittando del momento di crisi vissuto da Washington e dall’Occidente, Mosca si lanciò infatti in una serie di imprese militari al di là dei rigidi perimetri jaltiani, dal Corno d’Africa all’Asia.
Questa nuova postura del Kremlino aveva tra i suoi cardini anche l’installazione di basi militari e logistiche in Paesi amici ma non appartenenti al Patto di Varsavia; benché i sovietici negassero ufficialmente, e per motivi ideologici, l’esistenza di queste strutture, potevano infatti contare su avamposti in Algeria, Angola, Egitto (fino alla svolta filo-americana di Sadat), Etiopia, Iraq, Guinea, Somalia (fino alla svolta filo-americana di Siad Barre), Yemen del Sud, Siria e Vietnam.
Anche grazie a queste basi, Mosca riuscì a proiettare la sua forza ad ogni latitudine, in modo da fornire aiuto e sostegno alle compagini rivoluzionarie di ispirazione marxista, nel Terzo Mondo e in MO, ed aumentando la sua influenza ed il suo prestigio nello scacchiere internazionale, proprio quando gli avversari sembravano destinati ad uscire sconfitti dalla Guerra Fredda.
A spingere la dirigenza sovietica a questa scelta strategica contribuì in modo decisivo il golpe cileno, al quale Mosca non fu in grado di far fronte in nessun modo proprio a causa della mancanza di qualsiasi testa di ponte nell’area.