La scomparsa del proletariato “classico”, così come lo intendeva il Marxismo, e delle contrapposizioni ideologiche e bipolari novecentesche, ha indotto la sinistra (non solo partitica e non solo italiana) ad una revisione dei propri indirizzi ideologici e politici. Ciò ha a sua volta determinato la “sostituzione”, nell’agenda delle priorità, del già citato “vecchio” proletariato con il ceto pubblico-statale, anche per via del suo ruolo “simbolico” di antitesi al privato.
Così facendo la sinistra si è però dimenticata anche di quel “neo-proletariato”, di quel “cyber-proletariato”, di tutti quei nuovi “ultimi” riassumibili nella formula “Quinto Stato”, lavoratori indipendenti, precari e poveri ma spesso qualificati e mobili, sottoposti ad una flessibilità continua e impietosa.
Un errore, non in ultimo strategico, che ha favorito e sta favorendo il ritorno e l’ascesa dei populismi e dei neo-populismi e che vediamo riproporsi oggi in tempo di epidemia, almeno in Italia, con la protezione e la valorizzazione del settore pubblico-impiegatizio e una sostanziale mancanza di empatia verso i più colpiti dalle chiusure e dalle restrizioni, ovvero quella forza fragile e indipendente appena descritta.