Consapevole di non poter nemmeno lontanamente ipotizzare un uso pratico del suo arsenale nucleare (pena la fine del Paese e del regime) la Corea del Nord gurda alle sue armi non convenzionali come ad uno strumento di pressione per ottenere aiuti e concessioni di tipo economico e diplomatico da Seul e dai suoi alleati occidentali.
Meno malleabile dei suoi due predecessori (che, ricordiamo, accolsero la Sunshine Policy sudcoreana), Kim Jong Un sembra tuttavia cercare un gioco a “somma zero”, nel quale Pyongyang è l’unico Attore ad incassare risultati e vantaggi, pena un aumento delle tensioni nella zona.
Una soluzione di tipo romeno, con un accordo segreto e trasversale tra Washington e Pechino per far implodere la tirannia Juche, sarebbe oggi l’unica “exit strategy” percorribile, ma una unificazione coreana significherebbe per il Dragone la nascita di un pericoloso “competitor” nell’area e la presenza statunitense a ridosso dei suoi confini. Benché Kim costituisca una mina vagante anche per Pechino, un simile scenario è dunque inaccettabile ed irricevibile per la dirigenza cinese.
Se c’è qualcuno a cui fa comodo la dittatura nord coreana, quel qualcuno siede esattamente a Washington. Un nemico di paglia in stile cubano è perfetto per rinfocolare antichi rancori e serrare i ranghi attorno ad una dominazione imperiale che diversamente riscuoterebbe davvero poche simpatie. Il discorso si potrebbe applicare anche a Pechino, per niente desiderosa di risolvere un problema pieno di aspetti vantaggiosi. Uniche vittime i coreani.