Quando il 12 novembre 1982 Jurij Vladimirovič Andropov fu eletto Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica , la stampa atlantica sembrò, per un attimo, conquistata da questo anziano e sconosciuto (al grande pubblico) ex capo del KGB, salito alla massima carica dell’URSS.
Si pose infatti l’accento sul presunto stile occidentale di Andropov, sul fatto amasse il whisky americano, la pipa e le letture in inglese e francese; un uomo nuovo, si diceva da più parti e con entusiasmo, se confrontato con il suo rigido e “sovieticissimo” predecessore.
Il tempo avrebbe però dimostrato che si trattava di un’illusione. Sebbene, infatti, in politica interna il nuovo leader avesse cercato di avviare un’opera riformatrice rispetto agli anni della corruzione, del clientelismo e della stagnazione brezneviani, creando così i prodromi della rivoluzione gorbacioviana, in politica estera e sul delicato tema di diritti umani mostrò un appiattimento assoluto alle linee di indirizzo che avevano contraddistinto l’URSS fino al momento della sua elezione (si pensi all’abbattimento del Jumbo sudcoreano, allo schieramento in Europa dei missili balistici nucleari a medio raggio SS-20 ed al congelamento delle iniziative sul disarmo).
Ma come fu possibile che gli analisti occidentali del tempo siano caduti in una “wishful thinking” così grossolana, individuando delle chance di cambiamento per il blocco sovietico negli atteggiamenti privati di un vecchio gerarca, ex capo di un servizio segreto come il KGB? Secondo noi la risposta va cercata nel desiderio, forse inconscio, di un “turning point”, in URSS e dunque nel resto del pianeta, che sollevasse l’umanità da quel carico di angosce e tensioni prodotte della Guerra Fredda e dalla contrapposizione ideologica allora dominante.
In buona sostanza, quei giornalisti e quegli osservatori, preda della sofferenza emotiva e della paura della “bomba” esattamente come ogni altro essere umano ed abituati all’immagine rigida, minacciosa e respingente del gigante d’oltrecortina, si illusero, o scelsero di illudersi, al primo accenno di discontinuità rispetto ad un passato invece ben vivo e pulsante.
La storia e l’oggi ci dimostrano, tuttavia, che non si trattò e non si tratta del primo caso in cui un semplice indizio sia assurto al rango di prova, nella percezione di una figura pubblica e nell’analisi della sua azione, sull’onda lunga del coinvolgimento emotivo. Un rischio presente e sempre esistente, dal quale soltanto l’elaborazione razionale può e potrà mettere al riparo.