Se le atomiche più potenti sono quelle che non esplodono: il caso coreano

Subito dopo lo scoppio delle ostilità in Corea, Harry Truman diede luce verde all’invio di bombe atomiche e bombardieri strategici nella base filippina di Guam, facendo deliberatamente trapelare la notizia. Successivamente dichiarò nel corso di una conferenza stampa che l’uso delle bombe era “oggetto di attento esame”, e nel 1951 mandò altri B-29 e autorizzò il comandante della base a reagire con la massima arma in caso di attacco sovietico (questo in reazione ad un ammassamento delle truppe di Mosca al confine coreano).

Pochi giorni dopo silurò tuttavia il grande Douglas Mac Arthur, reo di aver invocato l’impiego di 30 atomiche sulla Cina qualora Pechino fosse entrata direttamente nel conflitto, mentre nel 1950 aveva costretto alle dimissioni il comandante dell’Accademia aeronautica che aveva ventilato l’ipotesi di un “first strike” preventivo contro l’URSS (la cosa non era in relazione alla guerra di Corea).

La dimostrazione muscolare di Washington serviva, lo abbiamo visto, come deterrente, ma non era sostenuta da una reale e concreta volontà di avvicinarsi alla “linea rossa”. Un “gioco di prestigio”, un esempio di PsyOps (operazioni di pressione psicologica), come ne stiamo vedendo da febbraio in Ucraina, da entrambe le parti.

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