“Un Alto Volta con tanti missili”: così, alcuni analisti definirono l’URSS negli anni ’70. Il paragone era con l’allora Alto Volta (oggi Burkina Faso), nazione africana tra le più povere del pianeta.
Eppure, la crisi dell’ Occidente e degli Stati Uniti dovuta allo smacco del Vietnam, agli schock petroliferi, al Watergate, all’ondata terroristica e alle indecisioni dell’ultra-liberale ma troppo idealista Carter, aveva convinto un importante segmento della pubblica opinione mondiale che sarebbe stata Mosca a vincere la prova di forza della Guerra Fredda con Washington e i suoi alleati.
La maggiore impermeabilità del blocco sovietico pre-gorbacioviano, inoltre, riusciva a mascherare le drammatiche lacune del mondo d’oltrecortina, mentre un rinnovato dinamismo militare sembrava suggerire che per il Kremlino i perimetri jaltiani non fossero più un tabù e che la stessa Dottrina Breznev (della “sovranità limitata”) appartenesse ormai alla storia.
La deflagrazione dell’ “impero” pochi anni dopo, dimostrò tuttavia come l’URSS fosse un gigante dai piedi di argilla (o una”tigre di carta”, per usare un’espressione cara a Mao Zedong), incapace di reggere l’urto della competizione.
Benché il muscolarismo putiniano sia riuscito a donare nuovo prestigio alla Russia dopo il drammatico decennio targato El’cin, le sanzioni e l’isolamento internazionale di cui Mosca è oggi vittima per le sue scelte neo-imperiali rischiano di infliggere danni inaccettabili ad un’economia ancora in fase di sviluppo e dunque bisognosa di buone relazioni con i partner stranieri; come ieri l’URSS di Breznev, Andropov e Černenko, quindi, anche la Russia dell’ex ufficiale del KGB potrebbe essere destinata a mostrare in modo clamoroso tutte le sue lacune e l’incapacità di mantenere e sostenere le sue ambizioni di “superpower”. É dunque legittimo domandarsi se Putin stia facendo il bene o il male del suo popolo.
Il “bene del popolo” è sempre stata una carta preziosa da giocare in quel del Cremlino.