
“Ho letto tutti i documenti della Corte internazionale di Giustizia dell’Onu riguardanti la situazione in Kosovo, e ricordo molto bene la sentenza che dice che nell’esercizio del diritto all’autodeterminazione un territorio di uno Stato non è obbligato a ottenere il permesso delle autorità centrali del proprio Paese per dichiarare la propria sovranità, una sentenza sostenuta da tutti che costituisce un precedente”.
Così Vladimir Putin al segretario generale dell’ONU António Guterres, durante il loro incontro al Kremlino.
Il fatto che il leader russo abbia menzionato, e per l’ennesima volta, la questione kosovara, non è casuale. Per lui come per molti suoi connazionali, l’operazione della NATO nel 1999 rappresentò infatti un vero e proprio trauma storico, al punto che secondo molti analisti fu allora che si interruppe la fase di buone relazioni tra Mosca e l’Occidente* avviata già con Michail Gorbačëv, che i russi decisero di guardare al mondo sulla base di una nuova prospettiva. Non va dimenticato che fino agli inizi di quello stesso decennio Belgrado era stata la capitale di un Paese socialista sostanzialmente alleato del Kremlino, dunque un attacco occidentale sarebbe stato impensabile solo fino ad una manciata di anni prima.
L’operazione “Allied Force” fu insomma la prova plastica del nuovo monopolarismo occidentale, del declino della Russia e della sua marginalizzazione. Qualcosa che i russi non avrebbero potuto e non possono accettare (non senza ragioni). La guerra in Ucraina è quindi anche il risultato di quella campagna di oltre 20 anni fa contro le forze di Slobodan Milošević.
*Si pensi all’incidente di Pristina e al dietrofront, appena saputo dell’attacco, del ministro degli Esteri russo Evgenij Primakov, mentre era in viaggio diplomatico verso gli Stati Uniti