“I rapporti tra Italia e Germania si caratterizzano da sempre per una certa dose di ambivalenza: dietro all’aspirazione alla conoscenza e all’intesa si celano sovente il sospetto e l’incomprensione. Gli italiani, per parte loro, hanno sempre avuto un atteggiamento di amore-odio per il mondo tedesco”
Questo, un estratto della prefazione al saggio “L’antigermanismo italiano: da Sedan a Versailles” dello storico ed accademico Federico Niglia.
L’affaire Volkswagen ha fatto emergere in tutta la sua impetuosità questa ambivalenza emotiva che caratterizza la nostra visione dei i tedeschi ed il nostro approcciarsi a loro, al loro mondo e al loro modo di essere e di vivere; da un lato, la soddisfazione nel vedere un Paese circonfuso da un’aura (immeritata) di mito proiettato nel fango dello scandalo, dall’altro (e qui vuole soffermarsi la mia breve analisi), la difesa coriacea, ostinata ed irrazionale della Germania.
L’aggettivo “irrazionale” non sarà scelto a caso, dal momento in cui , pur al cospetto dell’evidenza del fatto, il movimento d’opinione germanofilo sceglie di tenere la posizione, ripiegando sull’esaltazione di un (asserito) maggior rigore della giustizia teutonica che, a loro avviso, colpirà i responsabili e nel “tanto lo fanno tutti”.
A costoro, chi scrive vuole rammentare come la giustizia tedesca ed il sistema tedesco abbiano, ad esempio, molto spesso coperto i criminali nazisti, rifiutando di indagare nei loro confronti, di processarli e creando ostacoli nelle pratiche per le loro estradizioni.