Il ritorno su vasta scala dell’emergenza legata all’arrivo dei profughi sulle nostre coste ha visto un rilancio, nel movimento d’opinione cristiano, socialista e socialdemocratico, del tema legato al passato migratorio italiano.
Attraverso il ricordo degli esodi dei nostri avi (la cosiddetta “diaspora italiana”) si cerca, in buona sostanza, un’immedesimazione che crei un effetto catartico capace di disinnescare la pulsione xenofobo-razzista.
Sebbene lodevole da un punto di vista etico, lo strumento presenta, tuttavia, diverse lacune quando messo al vaglio dell’analisi razionale e del portato storiografico. Se, infatti, l’Italia che accoglie oggi immigrati, profughi e richiedenti asilo è un Paese in fase di contrazione economica, penalizzato nella sua ricettività anche da fattori endogeni quali le ridotte dimensioni territoriali, i luoghi di approdo dei nostri connazionali erano quasi sempre realtà in forte espansione e bisognose di manodopera (che spesso richiedevano), nazioni di grandi dimensioni, giovani e in divenire prive di un reale substrato etnico-culturale ma sviluppatesi proprio dall’iniezione dell’elemento esterno.
Ancora, l’Italia era un ed è un Paese occidentale, democratico (eccezion fatta per la parentesi fascista) e cristiano-cattolico, dunque con un patrimonio valoriale simile o identico a quello dei Paesi di destinazione dei nostri concittadini. Quest’ultimo dato rendeva l’integrazione tra noli e le comunità autoctone meno difficoltoso rispetto a quanto non avvenga oggi tra gli europei e , ad esempio, extracomunitari di religione musulmana e di provenienza araba.
Concordo pienamente, se allora la manodopera era richiesta esplicitamente oggi c’è il fenomeno della cosiddetta “accoglienza business” dove ogni politico incassa una somma per ogni migrante nella sua area di competenza dall’Unione europea; non curandosi del disagio e della criminalità che questi profughi portano nelle grandi periferie urbane.