La diplomazia atomica e i sui limiti: una lezione per Mosca dal 1945

“Lei non conosce gli uomini del Sud (degli USA, ndr). Noi portiamo le ami in tasca. Se non la smette di menare il can per l’aia e non ci consente di tornare al lavoro, tirerò fuori dalla mia tasca una bomba atomica e gliela tirerò addosso”. Così James F. Byrnes, 49º Segretario di Stato americano e direttore della mobilitazione bellica, al ministro degli Esteri Sovietico Molotov nel corso di un incontro con gli Alleati a Londra per decidere il futuro post-bellico dell’Europa.

Le minacce di Byrnes, all’inizio uno dei “falchi” dell’amministrazione americana, tra i favorevoli al bombardamento atomico del Giappone e tra i contrari alla condivisione delle informazioni sulla “bomba” con Mosca (a differenza, ad esempio, del fisico Julius R. Oppenheimer e del Capo di Stato maggiore George C. Marshall), non spaventarono la delegazione sovietica ma la resero più “testarda” e “ostinata”, come da ammissione dello stesso Segretario di Stato.

Dopo quell’esperienza, Byrnes scelse posizioni più morbide e comprese, e con lui altri, che la minaccia nucleare non ha un peso effettivo nella diplomazia, o meglio non può essere usata come strumento di pressione e ricatto al posto dei consueti e tradizionali sistemi di relazione, scambio e confronto

Una lezione che oggi dovrebbe invece riprendere Mosca, impegnata in una continua e incessante retorica apocalittica così da mascherare le sue debolezze e difficoltà nello scenario ucraino (e non solo).

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