
Susan Sontag, scrittrice, filosofa e storica americana, sosteneva che la percezione della malattia andasse liberata dai pensieri metaforici, non essendo (la malattia) una metafora bensì una realtà tangibile. Guardare ad essa in modo lucido e razionale, insomma, smettendo di considerarla un “predatore diabolico e invincibile ma come un semplice evento di natura”. Questo anche perché “il passo che dalla demonizzazione della malattia porta all’attribuzione della colpa al paziene è inevitabile e il malato diventa allora contemporaeamente vittima e colpevole.”
Il pensiero di Sontag, riferito soprattutto alla TBC, all’AIDS ed al cancro ma estendibile ad ogni altro morbo grave e pericoloso, si va ad inserire, cercando di destrutturarla, in quella teoria etico-religiosa che tende a “sublimare” le malattie e la loro diffusione, riconducendole (e riducendole) a forme di espiazione e a punizioni per colpe, reali o presunte, della società come del singolo.
Un’abitudine antica (si parla di “coazioni a ripetere”) e sempre presente anche nelle società più avanzate, un approccio miope e superstizioso che conduce, ancora e di nuovo, alla demonizzazione non solo del malato ma potenzialmente di qualsiasi altra persona, a maggior ragione se la malattia è contagiosa.
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