Da Carter a Trump: perché l’isolazionismo non può essere irreversibile

isolazionismo

Sotto la presidenza Carter, gli Stati Uniti conobbero un ritorno all’isolazionismo pre-wilsoniano (entro i limiti imposti dalle contingenze della divisione bipolare). Tra i motivi di quella nuova linea di indirizzo non cera soltanto l’idealismo dell’uomo di Plains (e soprattutto del suo Segretario di Stato, Cyrus Vance), convinto sostenitore del diritto dei popoli all’autodeterminazione e legato ai principi del jeffersonismo e del jacksonismo, ma anche il trauma della sconfitta vietnamita e la sua difficilissima eredità.

 

Per certi versi lodevole e apprezzabile, tale politica si rivelerà ad ogni modo controproducente, indebolendo gli USA e rendendo insicuri gli alleati. Sarà Ronald Reagan, il successore di Cater, a superarla, rilanciando il dinamismo americano sullo scacchiere internazionale e il ruolo guida di Washington nel blocco atlantico.

 

Benché molte cose siano cambiate dal 1981, il resto dell’Occidente è e rimane per gli americani una sponda di importanza vitale. La scelta (parzialmente) isolazionista e lasseferista di Trump (dovuta anche ad un altro trauma militare come quello afgano-iracheno) non andrà quindi considerata irreversibile, ma solo momentanea e transitoria, legata ad una fase momentanea e transitoria qual è appunto la sua presidenza.

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