Tempo fa avevamo paragonato la condizione attuale degli scienziati (virologi, epidemiologi, immunologi, pneumologi, ecc) a quella dei magistrati degli anni ’90; entrambe le categorie impegnate direttamente e come nessun’altra in una fase di emergenza e per questo idealizzate dalla gente “comune” sull’onda dell’emotività, con riflessi significativi e destabilizzanti sul loro Ego. Un paragone non irrazionale, come sembra dimostrare il recente ingresso in politica di un noto epidemiologo, proprio come fecero molti giudici allora.
Il fenomeno è tuttavia rintracciabile, e forse ancora di più, nella comunità degli infermieri, che con le toghe di quella stagione può anche condividere la mitologia del martirologio.
Selfie con le mascherine, selfie in ospedale, selfie tra i macchinari, selfie con i volti stanchi, selfie con i camici bagnati dal sudore, appelli genuini o insinceri, l’infermiere trova nel Covid, al di là dei meriti sul campo che gli vanno senza dubbio riconosciuti, una vetrina importante, che in parte lo sottrae, finalmente, al cono d’ombra del medico. Un’occasione per alcuni di loro irripetibile ma che determina, in qualche caso, un’esasperazione dei toni, un sostegno alla comunicazione ansiogena per sentirsi ancora e sempre protagonisti, per non lasciarsi sfuggire un momento di “celebrità” a lungo atteso, per non tornare persone “qualsiasi”, cosa inevitabile se l’emergenza finisse.